venerdì 24 febbraio 2017

Per i ragazzi di 1CL e 1AS

A beneficio (speriamo...) dei miei studenti, riproponiamo il post sul calendario, certamente legato alla storia delle origini di Roma.

Buona lettura! 

 

Il ferragosto, si sa, è visto da molti come il capodanno dell’estate, portatore di feste, gite fuori porta e scippi legalizzati in ristoranti e bagni al mare. Ci sembra interessante, invece, fare un tuffo nel passato, nella storia, per capire da quando il 15 agosto abbia valore di giorno festivo. Non potremo fare a meno, poi, di slalomeggiare tra i mesi che compongono il nostro calendario e di salutarvi con un paio di chicche cinematografiche a tema. 

 

 

Tutti sappiamo chi fosse Romolo, secondo la leggenda il fondatore di Roma; parrebbe sua l’invenzione del calendario, nome che deriva dalle Calendae, ovvero i primi giorni del mese. Agosto non si è sempre chiamato così: in origine era Sextilis, il sesto. Ma il sesto di cosa? Forse i Romani intendono dirci che si tratta di quello che oggi noi chiamiamo Giugno? Qui c’è la sorpresa: Roma aveva istituito un calendario di dieci mesi, che partiva da Marzo ed arrivava a Dicembre. Il Sextilis, quindi, era la sesta tappa di questo tour reale, ma anche simbolico in quanto ogni nome si collegava a precise divinità, festività e superstizioni. E’ Gaio Ottavio, che dal 43 a.C. si chiamerà Ottaviano e dal 27 a.C. Ottaviano Augusto, primo Imperatore di Roma, a stabilire che il sesto mese sarebbe diventato Augustus. Il 15, ovvero le Idi (circa metà mese, appunto) sarebbero state dette Feriae Augusti, vale a dire il giorno di riposo del Princeps che includeva anche moltissime celebrazioni religiose. Prima dell’avvento del figlio adottivo di Cesare, invece, il nostro ferragosto era il momento in  cui si celebravano i Vinalia Rustica, i raccolti e la conclusione dei principali lavori agricoli. Con l’avvento del Cristianesimo e della Chiesa cattolica la festa laica viene fatta coincidere con l’Assunzione della Beata Vergine Maria (a partire dal XVI secolo), mentre pare che l’abitudine italiana delle gite fuori porta, di cui si diceva all’inizio, sia nata durante il Ventennio grazie all’istituzione di treni ferragostani, a prezzo ridotto, per incentivare viaggi e, di conseguenza, consumi.
Ma torniamo al nostro calendario: i 10 mesi originari diventano 12 con Numa Pompilio, il secondo Re di Roma, mentre è Giulio Cesare ad istituire l’anno di 365 giorni e 6 ore. I 360 minuti in eccedenza costituivano ogni quattro anni un giorno in più, che veniva aggiunto non al 28 febbraio, come ora, ma al 24, il Dies Sextus prima delle calende di marzo. Di conseguenza il giorno successivo al 24 febbraio, aggiunto ogni quattro anni, prese il nome di Dies Bis Sextus, da cui derivò, e resta oggi, il nostro Bisextilis (bisestile).
E’ papa Gregorio XIII, nel 1582, a consegnare al mondo il calendario come lo conosciamo noi oggi.
E gli altri mesi? Vediamo di svelare qualche curiostà in rapida sequenza.
Gennaio (da Ianus, Giano, ovvero il custode della città).
Febbraio (Februa-orum, cerimonie di purificazione).
Marzo (Mars, il dio Marte, signore assoluto della guerra).
Aprile (da Aprilis/Aperire, in riferimento all’apertura, allo sbocciare della primavera).
Maggio (Maius, da Maia, dea della fecondità).
Giugno (Iuno, Giunone, patrona del mondo femminile e custode del matrimonio).
Luglio (Iulius, in onore di Giulio Cesare; in origine era Quintilis, il quinto mese a partire da marzo).
Agosto (se siete stati attenti... lo sapete già!).
Settembre, Ottobre, Novembre e Dicembre (rispettivamente il settimo, l’ottavo, il nono ed il decimo mese a partire da marzo).

Ad maiora! 



martedì 14 febbraio 2017

San Valentino, le origini e la leggenda

L'origine di San Valentino coincide con il tentativo della Chiesa cattolica di «cristianizzare» il rito pagano per la fertilità. Per gli antichi romani febbraio era il periodo in cui ci si preparava alla stagione della rinascita. A metà mese, fin dal quarto secolo a.C., iniziavano le celebrazioni dei Lupercali, per tenere i lupi lontano dai campi coltivati. I sacerdoti di questo ordine entravano nella grotta in cui, secondo la leggenda, la lupa aveva allattato Romolo e Remo, e qui compivano sacrifici propiziatori. Contemporaneamente lungo le strade della città veniva sparso il sangue di alcuni animali. I nomi di uomini e donne che adoravano questo Dio venivano inseriti in un’urna e poi mischiati; quindi un bambino estraeva i nomi di alcune coppie che per un intero anno avrebbero vissuto in intimità, affinché il rito della fertilità fosse concluso.  
I padri precursori della Chiesa, decisi a mettere fine a questa pratica licenziosa, vollero trovare un santo degli innamorati per sostituire l’immorale Lupercus. Nel 496 d.C. Papa Gelasio annullò la festa pagana decretando che venisse seguito il culto di San Valentino.


San Valentino, nato a Interamna Nahars, l’attuale Terni, nel 176 d.C. e morto a Roma il 14 febbraio 273, era un vescovo romano che era stato martirizzato. Valentino dedicò la vita alla comunità cristiana e alla città di Terni dove infuriavano le persecuzioni contro i seguaci di Gesù. Fu consacrato vescovo della città nel 197 dal Papa San Feliciano, poi divenne il protettore dell’amore in tutto il mondo. 
È considerato il patrono degli innamorati poiché la leggenda narra che egli fu il primo religioso che celebrò l’unione fra un legionario pagano e una giovane cristiana. 
Si dice che un giorno San Valentino sentì passare, vicino al suo giardino, due giovani fidanzati che stavano litigando. Allora gli andò incontro con in mano una rosa che regalò loro, pregandoli di riconciliarsi stringendo insieme il gambo della stessa, facendo attenzione a non pungersi e pregando affinché il Signore mantenesse vivo in eterno il loro amore. Qualche tempo dopo la coppia gli chiese la benedizione del loro matrimonio. Quando la storia si diffuse, molti decisero di andare in pellegrinaggio dal vescovo di Terni il 14 di ogni mese, il giorno dedicato alle benedizioni. Poi la data è stata ristretta solo a febbraio, perché in quel giorno del 273 San Valentino morì. 

Ad maiora!

venerdì 10 febbraio 2017

Materiale per la 2BSU: Mirandolina e gli uomini



Carlo GOLDONI
La locandiera


La locandiera è una commedia in tre atti di Carlo Goldoni, composta nel 1751, al termine della collaborazione tra il commediografo e il teatro Sant’Angelo, e messa in scena all’apertura della stagione di carnevale 1752-1753. La trama verte attorno al personaggio della locandiera Mirandolina, che, aiutata dal cameriere Fabrizio, si trova a doversi difendere dalle proposte amorose dei clienti dell’albergo da loro gestito nei pressi di Firenze. Al centro delle vicende c’è sempre la vigile e smaliziata intelligenza di Mirandolina, che sa far prosperare la sua attività commerciale e mettere in scacco l’altezzoso cavaliere di Ripafratta, uno dei suoi pretendenti. 
Nel primo atto Mirandolina, una giovane ed affascinante locandiera abituata a ricevere attenzioni e lusinghe dai clienti, viene corteggiata da due ospiti: il Marchese di Forlipopoli, un nobile decaduto, e il Conte di Albafiorita, un mercante arricchito che ha comprato il titolo nobiliare grazie ai suoi commerci. Anche nel corteggiamento i due si comportano in modo conforme al proprio ruolo sociale: il Marchese è convinto che basti il prestigio del suo titolo per conquistare l’amore di Mirandolina, mentre il Conte crede di poterla comprare per mezzo di regali e doni. Arriva però alla locanda un terzo ospite, il Cavaliere di Ripafratta, burbero e misogino, che si prende gioco perché insistono a dimostrare interesse per una donna (per giunta popolana), mentre egli, preferendo di gran lunga la libertà del celibato, non si abbasserebbe mai  tale condizione. Mirandolina, offesa e stimolata dal comportamento del Cavaliere, spiega in un monologo voler di minare le sue convinzioni, facendolo innamorare di lei.
Il secondo atto vede quindi Mirandolina mettere in atto i suoi propositi. Mirandolina, nell’accomiatarsi dal cavaliere, finge di piangere e, ad un certo punto, sviene di fronte a lui. Il Cavaliere cade nel tranello della protagonista, innamorandosi di lei.
Nel terzo atto acquista visibilità il cameriere Fabrizio, cui il padre di Mirandolina, in punto di morte, ha affidato la figlia. Il Cavaliere dona a Mirandolina una preziosa boccetta d’oro ma la donna rifiuta, ignorando pure la successiva dichiarazione d’amore dell’uomo. Il Marchese smaschera la passione del Cavaliere che, in un ultimo disperato assalto, provoca la reazione di gelosia di Fabrizio, che, innamorato di Mirandolina, la difende. Il Cavaliere, ormai preda di quella passione amorosa che aveva sempre sfuggito, è a tal punto furente da far scoppiare una lite col Conte, che rischia di degenerare in un duello. Mirandolina, ormai soddisfatta per aver realizzato il suo piano, interviene annunciando che sposerà il cameriere Fabrizio: il Cavaliere non può che abbandonare la locanda su tutte le furie, mentre il Marchese e il Conte sono invitati a trovare un altro alloggio e a desistere dai loro propositi. Nel monologo finale, Mirandolina mette in guardia il pubblico dalle abilità di una donna e dalle sue lusinghe.

Analisi e commento
La locandiera è una delle opere di Goldoni che hanno goduto di maggior fortuna critica e di pubblico e una di quelle che meglio riassume le caratteristiche del teatro goldoniano. Si nota innanzitutto la riuscita caratterizzazione dei personaggi che, in maniera opposta a quanto succede con le “maschere” fisse della Commedia dell’arte, sono definiti ciascuno in modo individuale e peculiare. A svettare su tutti è ovviamente la figura di Mirandolina: intelligente e determinata, bella e consapevole di sé, la “locandiera” ha come primo interesse il profitto della sua attività e quindi sa sia disimpegnarsi con stile dalle mediocri tentativi di seduzione del Conte e del Marchese e sia tener testa all’orgoglio borioso del Cavaliere, facendolo infine capitolare. Attraverso di lei, Goldoni da un lato stabilisce un dialogo diretto con il suo pubblico e dall’altro pone in rilievo l’arma con cui Mirandolina trionfa, ovvero l’intelligenza.
La conclusione della commedia è nel segno dell’ordine: Mirandolina, pur vincente, ammette d’aver esagerato e rientra nei ranghi con il matrimonio con Fabrizio, come le era stato consigliato dal padre morente. Questo del resto è in linea con la finalità etica che, con un pizzico d’ironia, Goldoni indica nella prefazione intitolata L’autore a chi legge: la storia de La locandiera deve mettere in guardia gli uomini dalle illusioni e dagli amari tranelli che le donne sanno, con somma astuzia, architettare.

giovedì 9 febbraio 2017

APERITIVO ETIMOLOGICO

Torna, dopo un po', la nostra rubrica. Ci è venuto in mente di trattare il tema della morte (sic!), non per portare jella, ma perchè siamo stati ispirati dal film "Il settimo sigillo", di Ingmar Bergman, uscito nel 1958 e da noi visto per la prima volta al Liceo, ormai 19 anni or sono.
Vediamo, quindi, come i Padri latini vedevano e pensavano il momento conclusivo della loro esistenza.

Pallida mors aequo pulsat pede pauperum tabernas regumque turres = La pallida morte batte con lo stesso piede alle capanne dei poveri ed alle torri dei re (Orazio, Odi, I, 4, 13-4).
    
Questa variazione poetica sul tema della morte che non opera distinzioni di classe sociale è interessante soprattutto per le due metafore impiegate, quella del volto pallido e quella del bussare. In quasi tutte le culture europee la morte viene presentata come una figura spettrale che viene a raccogliere le sue vittime presentandosi alla loro porta, ad indicare che non esiste alcun luogo in cui rifugiarsi per poterle sfuggire. Bella la definizione di pallida mors, uno splendido esempio di ipallage, ovvero di spostamento di aggettivo da un temine all’altro: infatti pallido è chi muore, non la morte.

Acta est fabula = La commedia è finita (dal linguaggio teatrale).

Sono le parole con le quali, al termine della commedia, l’attore si congedava dal pubblico chiedendone nel contempo l’applauso. Stando alla tradizione, l’imperatore Augusto, in punto di morte, avrebbe pronunciato questa frase e, paragonando la propria vita a quella di un attore, avrebbe chiesto a parenti ed amici di applaudirlo se avessero gradito la rappresentazione. Bisogna comunque considerare che il teatro è una delle metafore più usate per indicare il corso della vita umana insieme a quella della nave.

Abire ad plures = Andarsene fra i più (Petronio, Satyricon, 42, 5).


E’ una locuzione molto famosa atta ad indicare che i defunti sono assai più numerosi dei vivi perché comprendono tutte le generazioni dell’umanità, mentre sulla terra ne vive solamente uno alla volta. L’espressione è presente anche nel nostro dialetto (andè fra i piò tânt).

Riproponiamo la scena della partita a scacchi tra la Morte e il cavaliere, tratta dal film "Il settimo sigillo".



Ad maiora!

giovedì 2 febbraio 2017

Pillole dall'antichità. Quel giorno in cui il Vesuvio...

Cari amici,

riprendiamo il filone della letteratura latina e procediamo, in modo libero, all'analisi dei suoi più importanti esponenti. Oggi è la volta di Plinio il Vecchio... In pillole!

Plinio il Vecchio 

Nato a Verona nel 23 o 24 d. C., concilia nella misura più nobile le caratteristiche dell'uomo di studio e di azione, disponendone a piacimento in ogni momento della vita con disinvolto distacco. Dopo un periodo "militare" in Germania si dedica completamente allo studio, Nutre grande fiducia nella scienza, ma non nella natura che considera matrigna dell'uomo al quale ha insegnato solamente il pianto. La sua morte sembra quasi una vendetta della natura quando, durante l'eruzione del Vesuvio del 79, egli si reca a Stabia dalla vicina Miseno per soccorrere proprio i suoi simili e studiare da vicino lo straordinario fenomeno. 

 



La sua fama è affidata alla Naturalis Historia, una sorta di grande enciclopedia che raccoglie tutto lo scibile contemporaneo che ha per noi un altissimo valore documentario, anche se, a volte, disorganica, frettolosa, superficiale ed imprecisa.



Limiti che meritano di essere perdonati soprattutto per le intenzioni umanistiche dell'autore che pone l'uomo al centro dell'universo: l'uomo, con l'ansia del divino, con la scienza affrancatrice dall'ignoranza, con le sue debolezze umane, con i suoi sentimenti di solidarietà universale.  

Ad maiora!