Vediamo, quindi, come i Padri latini vedevano e pensavano il momento conclusivo della loro esistenza.
Pallida mors aequo pulsat pede pauperum tabernas regumque turres = La
pallida morte batte con lo stesso piede alle capanne dei poveri ed alle torri
dei re (Orazio, Odi, I, 4, 13-4).
Questa variazione poetica sul tema della
morte che non opera distinzioni di classe sociale è interessante soprattutto
per le due metafore impiegate, quella del volto pallido e quella del bussare.
In quasi tutte le culture europee la morte viene presentata come una figura
spettrale che viene a raccogliere le sue vittime presentandosi alla loro porta,
ad indicare che non esiste alcun luogo in cui rifugiarsi per poterle sfuggire.
Bella la definizione di pallida mors,
uno splendido esempio di ipallage, ovvero di spostamento di aggettivo da un
temine all’altro: infatti pallido è chi muore, non la morte.
Acta est fabula = La commedia è finita (dal linguaggio teatrale).
Sono le parole con le quali, al termine
della commedia, l’attore si congedava dal pubblico chiedendone nel contempo
l’applauso. Stando alla tradizione, l’imperatore Augusto, in punto di morte,
avrebbe pronunciato questa frase e, paragonando la propria vita a quella di un
attore, avrebbe chiesto a parenti ed amici di applaudirlo se avessero gradito
la rappresentazione. Bisogna comunque considerare che il teatro è una delle
metafore più usate per indicare il corso della vita umana insieme a quella
della nave.
Abire ad plures = Andarsene fra i più (Petronio, Satyricon, 42, 5).
E’ una locuzione molto famosa
atta ad indicare che i defunti sono assai più numerosi dei vivi perché
comprendono tutte le generazioni dell’umanità, mentre sulla terra ne vive
solamente uno alla volta. L’espressione è presente anche nel nostro dialetto (andè fra i piò tânt).
Riproponiamo la scena della partita a scacchi tra la Morte e il cavaliere, tratta dal film "Il settimo sigillo".
Ad maiora!
Nessun commento:
Posta un commento