Il dialetto paradigma di cultura, poesia e tradizioni
di Fabio Pagani
Oggi è la giornata nazionale dei
dialetti e delle lingue locali. Un evento importante, non solo per un passato
sempre più da custodire, ma anche per il presente: il numero 3608 dello storico
fumetto “Topolino”, infatti, è in uscita con un’edizione speciale in quattro
dialetti (milanese, fiorentino, napoletano e catanese); iniziativa, a nostro
parere, originalissima e intesa a festeggiare il vernacolo, prezioso patrimonio
culturale.
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Nel Medioevo, complici anche i
cambiamenti storico – politici cui va incontro la nostra terra, nasce la Provincia
Romandiolae, che comprende sette città e tali rimarranno fino ad oggi: Ravenna,
Forlì, Rimini, Faenza, Cesena, Imola e Lugo. La forte identità che connota la
Romagna, da sempre orgogliosamente fiera dei propri confini, ha acceso lunghi
dibattiti sull’opportunità di scindere il suo territorio da quello dell’Emilia;
il 1^ gennaio 1948, con l’entrata in vigore della Costituzione italiana,
l’Emilia - Romagna assume le caratteristiche di una regione ad autonomia
ordinaria, ma è soltanto a partire dal 7 giugno 1970 che le sue funzioni
diventano attuative. In quei vent’anni di vita non sono pochi i tentativi di
rompere questo vincolo: uno su tutti, il M.A.R. (Movimento per l’Autonomia
della Romagna). Ad esso aderiscono figure di spicco del mondo della cultura,
quali il poeta Aldo Spallicci, con lo scopo di ottenere il riconoscimento delle
tradizioni storiche e culturali nel loro significato più ampio.
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Simbolo del M.A.R. (Movimento Autonomia per la Romagna) |
Lasciando ad altri le riflessioni
del caso, ci preme invece porre l’accento sul vero problema, a nostro giudizio,
che affligge la Romagna di oggi: il dialetto è in pericolo? Il fatale andare
del tempo lo cancellerà dalle piazze, dai bar, dalle case?
Il dialetto romagnolo è pratico e
misurato; ha un linguaggio che forse si presta di più ai fatti che non alla
poesia. Non è di certo elegante come il siciliano, né duttile quanto il
milanese: è invece duro, composto di troppe consonanti e povero di
congiunzioni, anche se riesce spesso ad esprimere pensieri forti e arguti. Ecco
perché riteniamo utile avvicinarsi allo studio di un poeta come Olindo Guerrini
in quanto con lui si riesce a dimostrare come il vernacolo non abbia bisogno di
strutture sintattiche complicate e possa presentare benissimo la grettezza
della provincia, essere foneticamente duro e, al contempo, colorito. Sfogliare
le pagine dei Sonetti romagnoli può farci conoscere l’immagine della vecchia
Ravenna che fu, nel fumo caldo dell’osteria della Zabariona, nel clima
infuocato delle lotte politiche d’allora fra i prugressesta e i libarel, nel
mondo di una lingua fresca, vitale, vera.
A Bologna, per esempio, il poeta
esce con la grande semplicità che lo qualifica in questa esclamazione:
Al do Torr? San Petroni? Chi
s’n’infott! / Nò a curessom ai Quatar Piligren
A magné al parpadell cun e’ parsott.
Le due Torri? San Petronio? Chi
se ne frega! / Noi corremmo ai Quattro Pellegrini
A mangiare le pappardelle con il prosciutto.
La lingua italiana, invece,
rappresenta il modo di parlare del prete, dell’avvocato, quella del “signor
Conte” di Diritto al lavoro:
Un ved, e mi sgnor Cont, un ved
incora / Ch’a i’ho tre creatur da sustinté?...
A set cus ch’um ha arspost…? “Porco, lavora!”.
Non vede, signor Conte, non vede
ancora / Che ho tre figli da sfamare? …
Lo sai cosa mi ha risposto…? / “Porco, lavora!”.
Spesso i versi diventano un
malizioso foglio d’album, in ricordo della Romagna o della libertà perduta (va
appuntato che Guerrini trascorre quasi tutto il suo tempo nella biblioteca
universitaria di Bologna, che dirige per molti anni), versi che rimangono validi
perché sono la Romagna autentica, genuina, raccontata certamente in chiave
umoristica, ma sempre con un velo di malinconia.
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La Caveja, simbolo della Romagna |
Nell’immediato secondo dopoguerra, la tematica principale è costituita dal Neorealismo, che con Tonino Guerra approda nella poesia dialettale. Nella raccolta I bu (I buoi), infatti, risalta l’allegoria di un declino storico: il mondo rurale contadino cede il passo ad una nuova epoca, quella dell’industria e delle macchine, con gli animali che sono tristemente destinati al macello. Un’altra voce di rilievo è senz’altro quella di Raffaello Baldini. Santarcangiolese come Guerra, ma trapiantato a Milano, lo citiamo per La fondazione, uno dei quattro monologhi teatrali messo magistralmente in scena da Ivano Marescotti; sospesa fra nevrosi e assenza, l’opera è la storia di un personaggio schiavo delle proprie cose. La moglie lo ha lasciato, ma lui non riesce a rinunciare alla sua “roba”. Questo accade perché essa rappresenta per il protagonista la vita stessa, quindi da tenere stretta a tutti i costi. Uno spettacolo comico, quello de La fondazione, ma anche in un certo senso patologico perché, citando le parole di Leo Longanesi, “i difetti degli altri somigliano troppo ai nostri”.
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Ivano Marescotti |