venerdì 17 gennaio 2025

TE AD CHI SIT E’ FIÖL?

Il dialetto paradigma di cultura, poesia e tradizioni

di Fabio Pagani

Oggi è la giornata nazionale dei dialetti e delle lingue locali. Un evento importante, non solo per un passato sempre più da custodire, ma anche per il presente: il numero 3608 dello storico fumetto “Topolino”, infatti, è in uscita con un’edizione speciale in quattro dialetti (milanese, fiorentino, napoletano e catanese); iniziativa, a nostro parere, originalissima e intesa a festeggiare il vernacolo, prezioso patrimonio culturale.


Noi viviamo in Romagna, terra impettita e vigorosa di una regione che ha fatto delle rivalità storiche – e linguistiche – la propria bandiera. Il dialetto romagnolo è una lingua. Viva, florida, efficace. Le sue radici affondano nel VI secolo d.C. quando, con il passaggio di testimone fra Ostrogoti e Bizantini, i ravennati del tempo incominciano a parlare questo idioma, sintesi e confluenza di un gran numero di codici: greco, latino, francese, arabo, tedesco, tanto per citare i più significativi.

Nel Medioevo, complici anche i cambiamenti storico – politici cui va incontro la nostra terra, nasce la Provincia Romandiolae, che comprende sette città e tali rimarranno fino ad oggi: Ravenna, Forlì, Rimini, Faenza, Cesena, Imola e Lugo. La forte identità che connota la Romagna, da sempre orgogliosamente fiera dei propri confini, ha acceso lunghi dibattiti sull’opportunità di scindere il suo territorio da quello dell’Emilia; il 1^ gennaio 1948, con l’entrata in vigore della Costituzione italiana, l’Emilia - Romagna assume le caratteristiche di una regione ad autonomia ordinaria, ma è soltanto a partire dal 7 giugno 1970 che le sue funzioni diventano attuative. In quei vent’anni di vita non sono pochi i tentativi di rompere questo vincolo: uno su tutti, il M.A.R. (Movimento per l’Autonomia della Romagna). Ad esso aderiscono figure di spicco del mondo della cultura, quali il poeta Aldo Spallicci, con lo scopo di ottenere il riconoscimento delle tradizioni storiche e culturali nel loro significato più ampio.

Simbolo del M.A.R. (Movimento Autonomia per la Romagna)

Lasciando ad altri le riflessioni del caso, ci preme invece porre l’accento sul vero problema, a nostro giudizio, che affligge la Romagna di oggi: il dialetto è in pericolo? Il fatale andare del tempo lo cancellerà dalle piazze, dai bar, dalle case?

Il dialetto romagnolo è pratico e misurato; ha un linguaggio che forse si presta di più ai fatti che non alla poesia. Non è di certo elegante come il siciliano, né duttile quanto il milanese: è invece duro, composto di troppe consonanti e povero di congiunzioni, anche se riesce spesso ad esprimere pensieri forti e arguti. Ecco perché riteniamo utile avvicinarsi allo studio di un poeta come Olindo Guerrini in quanto con lui si riesce a dimostrare come il vernacolo non abbia bisogno di strutture sintattiche complicate e possa presentare benissimo la grettezza della provincia, essere foneticamente duro e, al contempo, colorito. Sfogliare le pagine dei Sonetti romagnoli può farci conoscere l’immagine della vecchia Ravenna che fu, nel fumo caldo dell’osteria della Zabariona, nel clima infuocato delle lotte politiche d’allora fra i prugressesta e i libarel, nel mondo di una lingua fresca, vitale, vera. 

A Bologna, per esempio, il poeta esce con la grande semplicità che lo qualifica in questa esclamazione:

Al do Torr? San Petroni? Chi s’n’infott! / Nò a curessom ai Quatar Piligren

A magné al parpadell cun e’ parsott.

Le due Torri? San Petronio? Chi se ne frega! / Noi corremmo ai Quattro Pellegrini

A mangiare le pappardelle con il prosciutto.

La lingua italiana, invece, rappresenta il modo di parlare del prete, dell’avvocato, quella del “signor Conte” di Diritto al lavoro:

Un ved, e mi sgnor Cont, un ved incora / Ch’a i’ho tre creatur da sustinté?...

A set cus ch’um ha arspost…? “Porco, lavora!”.

Non vede, signor Conte, non vede ancora / Che ho tre figli da sfamare? …

Lo sai cosa mi ha risposto…? / “Porco, lavora!”.

Spesso i versi diventano un malizioso foglio d’album, in ricordo della Romagna o della libertà perduta (va appuntato che Guerrini trascorre quasi tutto il suo tempo nella biblioteca universitaria di Bologna, che dirige per molti anni), versi che rimangono validi perché sono la Romagna autentica, genuina, raccontata certamente in chiave umoristica, ma sempre con un velo di malinconia. 

La Caveja, simbolo della Romagna

Nell’immediato secondo dopoguerra, la tematica principale è costituita dal Neorealismo, che con Tonino Guerra approda nella poesia dialettale. Nella raccolta I bu (I buoi), infatti, risalta l’allegoria di un declino storico: il mondo rurale contadino cede il passo ad una nuova epoca, quella dell’industria e delle macchine, con gli animali che sono tristemente destinati al macello. Un’altra voce di rilievo è senz’altro quella di Raffaello Baldini. Santarcangiolese come Guerra, ma trapiantato a Milano, lo citiamo per La fondazione, uno dei quattro monologhi teatrali messo magistralmente in scena da Ivano Marescotti; sospesa fra nevrosi e assenza, l’opera è la storia di un personaggio schiavo delle proprie cose. La moglie lo ha lasciato, ma lui non riesce a rinunciare alla sua “roba”. Questo accade perché essa rappresenta per il protagonista la vita stessa, quindi da tenere stretta a tutti i costi. Uno spettacolo comico, quello de La fondazione, ma anche in un certo senso patologico perché, citando le parole di Leo Longanesi, “i difetti degli altri somigliano troppo ai nostri”.

Ivano Marescotti

Chiudiamo questo viaggio con due amici: Giuseppe Bellosi, studioso di letteratura in vernacolo, poeta, glottologo, etnologo, da anni attivo nella divulgazione della cultura locale. Notevole è la collaborazione di Bellosi con il ravennate Eraldo Baldini: dei due ricordiamo, fra le altre, il libro Dante in Romagna. Miti, leggende, aneddoti, tradizioni popolari e letteratura dialettale. E Nevio Spadoni, ravennate di San Pietro in Vincoli. Di lui scrive l’illustre filologo e saggista Ezio Raimondi: “Nel dialetto di Spadoni, ruvido e aspro, il flusso discorsivo sembra proprio scaturire dal profondo del corpo, dall’intreccio mobile e inquieto delle sue sensazioni che hanno ancora lo scatto, il calore, la pienezza della vitalità”.

Dante in Romagna, di Baldini e Bellosi

Il poeta Nevio Spadoni

Come potete ben capire, altro che lingua morta! Il dialetto è vivo e sta benone! 
Lo respiriamo, annusiamo e sorseggiamo ogni giorno, anche se forse non lo parliamo quasi più. Attenti, però: lui non si dimentica di noi e, quando meno ce l’aspettiamo, viene a trovarci con un ciô, un dài mo’! oppure sei proprio un patac(c)a!.