Dopo la guerra annibalica, la porzione occidentale del
Mediterraneo diviene sotto il controllo di Roma, mentre il mondo orientale vive
una situazione incerta: infatti il carattere peninsulare della Grecia e le
molte isole che punteggiano l’Egeo portano l’uomo greco a privilegiare i
rapporti attraverso un mare che è visto come ponte di collegamento con
l’Europa. Al contrario, l’influenza ellenica sull’Asia Minore è molto sensibile
ed il panorama politico creatosi dopo la dissoluzione dell’ Impero di
Alessandro Magno è molto delicato.
Cipro, Cirene, la Siria del Sud, Rodi e Pergamo da un lato vogliono
resistere all’idea romana di conquista, dall’altro lottano all’ultimo sangue
tra di loro per imporsi. Nasce, inevitabilmente, un conflitto che sarà noto
alla storia come “Guerra Macedone”. I Macedoni, guidati da Filippo V, vogliono
conquistare l’Attica (la regione in cui si trova Atene) e quasi vi riescono,
tanto è vero che tal Cefisodoro, un patriota greco, corre a Roma a chiedere
aiuto. L’intervento dell’Urbe è, almeno inizialmente, incerto: Scipione, l’eroe
di Zama, non intende partecipare alla guerra per paura che possa emergere una
personalità militare superiore alla propria, ma prevarrà l’idea belligerante di
un gruppo di Romani composto da Lepido e Galba, che prenderà il comando delle
truppe romane in Macedonia. Il suo intervento, però, non è risolutore e la
Repubblica offre la guida delle legioni a Tito Quinzio Flaminino che, nella
battaglia di Cinoscefale (letteralmente, dal greco antico, “testa di cane”,
appunto per la particolare morfologia del territorio), in Tessaglia, infligge
una dura sconfitta alla Macedonia. Roma, naturalmente, celebra il trionfo, ma
introducendo un nuovo elemento di propaganda: l’immagine di Flaminino impressa
su uno statere (moneta) d’oro. Si tratta della prima volta in cui il busto di
un generale compare pubblicamente inciso su metallo. Come possiamo vedere dalla figura, sul D/ della moneta c'è il volto di profilo di T. Q. Flaminino, mentre sul R/ si trova l'iconografia di Vittoria, in piedi, con una corona nella mano destra, posta sull'iscrizione "T. QUINCTI", e un ramo di palma nella sinistra.
Roma, tuttavia, non può
ancora cantar vittoria dato che, eliminati i Macedoni, deve preoccuparsi di
Antioco III di Siria, sovrano molto temuto anche perché aveva dato rifugio ad
Annibale (come abbiamo scritto nel secondo capitolo del nostro racconto). La
storia sorride ancora ai Romani che, aiutati dai Greci, non contenti di finire
sotto il dominio siriaco, obbligano Antioco a riconoscere l’indipendenza delle
città greche ed a consegnare Annibale ai Romani (sulla sorte del generale
cartaginese vi rimandiamo sempre alla seconda puntata già pubblicata). Ormai
anche quello che oggi è chiamato Medio - Oriente è coperto dalla “longa manus”
romana, nonostante un ultimo, disperato tentativo macedone, schiacciato sotto i
colpi dell’esercito di Roma nella battaglia di Pidna (168 a.C.). La Macedonia,
sconfitta, viene suddivisa in quattro distretti autonomi che conservano una
propria autonomia amministrativa, ma che non possono commerciare. E Cartagine? Non l’abbiamo dimenticata! I
Punici, come pugili valorosi e mai domi, si rialzano dopo i due diretti
incassati da Roma nelle Guerre Puniche e tentano di dare battaglia per non
perdere l’ultima speranza, a dire il vero flebile, di tenere il Mediterraneo.
La risposta dell’Urbe è decisa, implacabile: con l’appoggio del Re di Numidia,
Massinissa, i Romani scendono a Cartagine, la distruggono, uccidono soldati e
civili e, come tramanda la storia, cospargono di sale ogni angolo della città
in modo che non possa mai più sorgere e germogliare la vita in quella terra. L’ordine,
secondo quanto ci dice lo storico Plutarco, viene dato da Marco Porcio Catone,
politico romano molto attento ai costumi morali, che era solito concludere le
sue invettive con questa celeberrima frase: “Ceterum censeo
Carthaginem esse delendam” (Per il
resto penso che Cartagine debba essere distrutta). E così sarà.
Ad maiora!