domenica 6 marzo 2022

ALLA SCOPERTA DELLE RADICI DELLA NOSTRA LINGUA

 Puntata n. 2


Carissimi,

quante volte vi avranno definito in questo modo: “Sei proprio un ghengo!”. Ma dove risale l’origine di questo termine, molto popolare nella Romagna ravennate, meno nel resto della “Provincia Romandìolae”?

Ghèngh”, cioè “fannullone”, è diffuso a Ravenna, Ville Unite, Russi, Fusignano ed Alfonsine e la sua etimologia è attribuibile, con ragionevole approssimazione, al tedesco “gagg/gang” e significa “viandante”. 



Qualcuno ha, con una punta di ironia, definito colui che viaggia come uno che non lavora: i romagnoli, quindi, avrebbero preso alla lettera queste parole, associando il “Ghèngh” al “girandolone”, ovvero “zirandlôn”, oppure allo “zingaro”, “e’ zèngan”, vale a dire un vagabondo dedito solo all’ozio.

 

Ad maiora!

mercoledì 2 marzo 2022

VINCENZO MONTI, UOMO DEL “SUO” TEMPO

 Tutti sono a conoscenza delle “vicissitudini critiche” di Vincenzo Monti, vissuto in un periodo storico travagliato e segnato da eventi politici profondi, quali la Rivoluzione francese, la Repubblica Cispadana, l’avvento di Napoleone, la Restaurazione messa in atto dalla Santa Alleanza dopo il Congresso di Vienna. L’uomo Monti – secondo quanto si legge in molte storie della letteratura – si piegò a tutti gli avvenimenti divenendone di volta in volta il cantore ufficiale. Da iperboliche esaltazioni si passa a condanne assolute e profondo disprezzo, forse perché nel giudizio delle sue opere si fonde, quando non è dominante, quello della sua vita. Chi lo definisce grande poeta, chi lo dice arcade vuoto e perduto (vale a dire sordo, arido e superfluo rimatore di suoni inesistenti), chi lo celebra come Pater Patriae (Padre della Patria), chi, infine, lo qualifica come strimpellatore. Vediamo, in sintesi, alcuni dei giudizi più celebri sul poeta alfonsinese.



“… Ma tutto quello che spetta all’anima, al fuoco, all’affetto, all’impeto vero e profondo, sia sublime, sia massimamente tenero, gli manca affatto. Egli è un poeta veramente dell’orecchio, del cuore in nessun modo” (Giacomo Leopardi).

“… La natura gli aveva largito le più alte qualità dell’artista: forza, grazia, affetto, armonia, facilità e brio di produzione. Aggiungi la più consumata abilità tecnica, un’assoluta padronanza della lingua e dell’elocuzione poetica. Ma erano forze vuote, macchine potenti prive d’impulso. Mancava la serietà di un contenuto profondamente meditato e sentito, mancava il carattere, che è l’impulso morale. Pure i suoi lavori, soprattutto l’Iliade (N.B. la traduzione del poema omerico da parte del Monti è, ancora oggi, considerata la versione migliore. E pensate che Monti non conosceva il greco! Forse anche per questo, Foscolo la definì “bella e infedele”), saranno sempre utili a studiarvi i misteri dell’arte e le finezze della elocuzione” (Francesco De Sanctis).

“… Il Monti fu un ingegno più vario che non il Metastasio, più pronto e ricco che non il Parini, più facile e vivo che l’Alfieri; seppe rinnovare quel che di usuale e di utile restava nelle consuetudini dell’arte italiana; seppe attingere con discernimento e con gusto alle letterature straniere (…) Fu in somma il maggior poeta ecletticamente artistico che l’Italia da gran tempo avesse avuto” (Giosuè Carducci, vincitore del Nobel per la Letteratura nel 1906).

“Beata la nazione che al cader di un suo figlio degno dell’immortalità, può proferire il detto dello Spartano: Io ho molti figli grandi com’egli fu. Beata la nazione che onora gli illustri perduti con l’educare altri illustri sulle loro tombe” (Giuseppe Mazzini).

Il Monti, però, non ebbe una tomba e le sue ceneri andarono disperse. Concludiamo questa parte non dimenticando la famosa quartina che Manzoni scrisse dopo la morte del Poeta:

Salve, o divino, a cui largì natura

Il cor di Dante e del suo duca il canto!

Questo fia il grido dell’età futura;

Ma l’età che fu tua te ‘l dice in pianto.


Ad maiora!

 

venerdì 31 dicembre 2021

ALLA SCOPERTA DELLE RADICI DELLA NOSTRA LINGUA

 Puntata n. 1


Carissimi,

rispolvero il motto del periodico bolognese di Stecchetti, “Il Matto”: “Il giornale uscirà quando crede: non più di una volta al giorno, non meno di una volta all’anno”. Perché, vi chiederete? Senza dubbio, uno dei motivi è che, pubblicando oggi questo testo, ho ragionevole certezza di non essere costretto ad uscire ancora nel 2021.

Bando alle ciance, o quasi, vi voglio raccontare la storia di un aggettivo della lingua romagnola, assai noto alle generazioni più mature, ma pressoché sconosciuto a quelle più verdi: “spagogn”.


Mi ritrovo molto in questo termine, forse perché, come dicevano i Latini, “nomen – omen”?

Comunque sia, “spagogn” significa “ritroso”, “indocile” ed è proprio di un carattere introverso, scontroso, spigoloso, poco socievole, infastidito dal contatto umano cercato a tutti i costi. La sua probabile etimologia deriverebbe dal latino” pagan(ic)us”, abitante del “pagus” (villaggio), perciò rustico e selvaggio. Un’altra possibile origine sarebbe “expacare” (spaventare), dove il suffisso –ogn ha valore attenuativo: un po’ spaventato, un po’ scontroso, quindi, come è nello stile del carattere dello “spagogn”.

Con questo, cari lettori, vi saluto, augurando a tutti noi un 2022 tranquillo.

Ad maiora!

martedì 21 settembre 2021

Vivi nella parola… In pillole

 Cari amici,

oggi parliamo di un altro autore, non un poeta, ma uno scrittore: Renato Serra. Come mai, forse vi chiederete, allora compare nell’antologia? Il motivo è presto detto: Serra evoca benissimo il dolore e lo smarrimento di fronte alla morte, una morte che deriva dalla tragedia della guerra, la Grande Guerra, a cui egli partecipa. Inoltre, diversi lirici dell’area cesenate, contenuti in “Vivi nella parola”, trattano criticamente la produzione del Serra e, quindi, riteniamo utile parlarne.

Renato Serra nasce a Cesena nel 1884 e muore sul monte Podgora, in Friuli, il 21 luglio 1915. Di famiglia benestante, si laurea in Lettere presso l’Università di Bologna e ha nel Carducci il proprio modello culturale di riferimento. Aderisce alle idee socialiste del tempo e, nonostante la vita lo porti ad entrare all’accademia militare e a frequentare gli ambienti fiorentini e romani, mantiene sempre forte il legame con la sua terra, la Romagna, di cui ama approfondire anche gli autori minori. Serra, molto sensibile al tema della guerra ed alla necessità di mistificarne il mito – evidente, qui, il contrasto con D’Annunzio -, rifiuta l’idea per cui il conflitto bellico sia necessario, spogliandolo di ogni abito morale ed etico.

Lo scrittore cesenate, decidendo di prendere parte alla Grande Guerra, assume una posizione decisamente netta, declinandola attraverso il ruolo della letteratura: quest’ultima, infatti, non è capace di esprimere il senso di smarrimento dei giovani di fronte al dramma delle bombe, non sa trovare nelle trincee un minimo motivo di giustificazione, non può celebrare ciò che conduce milioni di uomini, giovani soprattutto, a morte certa.

Ne Esame di coscienza di un letterato, scritto dal nostro nell’aprile 1915, Serra dipinge il sacrificio della morte con colori grigi, freddi, in antitesi alle gloriose celebrazioni che i letterati e gli intellettuali producono:

[…] la guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati. In questo mondo, che non conosce più la grazia. […]

[…] Vorremmo che quelli che hanno faticato, sofferto, resistito per una causa che è sempre santa, quando fa soffrire, uscissero dalla prova come quasi da un lavacro: più puri, tutti. E quelli che muoiono, almeno quelli, che fossero ingranditi, santificati; senza macchia e senza colpa. E poi no. Né il sacrificio né la morte aggiungono nulla a una vita, a un’opera, a un’eredità. Il lavoro che uno ha compiuto resta quello che era. […]

 

Ad maiora!

Nel nostro caso, appuntamento a mercoledì 29 settembre, ore 21.00, presso il Cinema Gulliver di Alfonsine, per la presentazione del libro.

mercoledì 15 settembre 2021

VIVI NELLA PAROLA… IN PILLOLE

Cari amici,

per la nostra rubrica, in vista della prima presentazione del libro, che avverrà alla sala Gulliver di Alfonsine mercoledì 29 settembre alle ore 21, oggi parliamo di un altro autore presente nella raccolta, Dino Campana.

Definito dai critici come un visionario ed erede, in qualche modo, della tradizione simbolista francese, il poeta vive un’esistenza tormentata e segnata dal soggiorno coatto in manicomio, dal gennaio 1918 al 1932, anno della morte.


La lirica di Campana, confluita nella raccolta “Canti orfici”, punta a sconvolgere e a fulminare le coscienze, scagliando saette emotive che stordiscono il lettore. Amore e Morte, “Eros” e “Thànatos”, passione e dolore mescolati perfettamente nell’attrazione per Sibilla Aleramo, la sola donna che Campana, a modo proprio, amerà. “Dino, io e te ci siamo amati come non era possibile amarsi di più, come nessuno potrà mai amare di più”, scrive Sibilla in una lettera del febbraio 1917.

Campana, nell’ultimo verso dei “Canti orfici”, ci lascia il testamento della sua vita che, secondo Carmelo Bene, uno dei massimi interpreti del poeta di Marradi, è trascorsa tutta nel dolore e nel delirio, non solo in quei quattordici anni di reclusione nel sanatorio. “Erano tutti avvolti e coperti col sangue del fanciullo”, chiosa Campana: senza dubbio queste parole contengono l’amara riflessione su se stesso, anima libera che paga, come vittima sacrificale del mondo, l’aver cercato di toccare i più intimi segreti dell’uomo.

 

Ad maiora!

lunedì 6 settembre 2021

VIVI NELLA PAROLA... IN PILLOLE

 

Cari amici,

continuiamo la nostra breve rassegna sugli autori che troverete nell'antologia "Vivi nella parola. I sepolcri dei poeti romagnoli", edita da "L'arcolaio" e scritta da me e da Nevio Spadoni. Oggi parliamo di Olindo Guerrini, che non è soltanto poeta dialettale, ma uomo di grande cultura e formazione classica. 

Con l’affermarsi, nella seconda metà dell’Ottocento, del positivismo come concezione del mondo e del naturalismo come canone dell’arte, nascono in letteratura la scientificità, l’impersonalità e l’impiego di un linguaggio parlato dimesso che attinge molte parole dal dialetto e dall’uso quotidiano, per poter presentare, con realtà e schiettezza, il parlare dei personaggi. Il termine “realismo” viene usato a significare soprattutto gli aspetti sporchi e deformi della realtà ed il suo elemento di maggiore incisività è l’efficacia dell’evocazione, di cui il francese Baudelaire esprime la cifra simbolica più vera. In Italia non esiste un momento di contemporaneità a Baudelaire, ma un prima e un dopo; ritroviamo in Guerrini questo realismo baudelairiano e la capacità di cogliere l’aspetto sensuale della vita rivestendolo di eleganti forme, divenendo così un poeta prediletto dal pubblico. La critica, tuttavia, non è tenera con Guerrini (vedi Croce, che lo taccia di oscenità), mentre Carducci, nel periodo bolognese, spiega che le liriche di Guerrini “non glorificavano la guerra civile, ma erano un’ispirazione sociale, tradotta in versi per amore dell’arte”. Entrambi i poeti alzano la bandiera contro le putredini cattoliche e romantiche, legati entrambi alla realtà storica in cui vivono e da cui traggono i loro ideali. Guerrini, eccellente latinista, si distingue, al di là degli strali della critica (Croce e Flora), per la grandezza con cui traduce e recupera gli immortali versi di Catullo (Odi et amo), di Orazio (Odi, libro I, n. 11), di Baudelaire, Hugo, del Leopardi dei Canti (in comune: l’abbandono della donna amata), di Byron e, naturalmente, di Carducci.

Ad maiora!

lunedì 16 agosto 2021

VIVI NELLA PAROLA… IN PILLOLE

 

Cari lettori,

oggi vogliamo incuriosirvi ed avvicinarvi, se possibile, alla lettura del nostro libro, “Vivi nella parola. I sepolcri dei poeti romagnoli” (casa editrice L'arcolaio). Lo facciamo parlando di uno dei trenta autori presenti nella raccolta, vale a dire Francesco Talanti, sant’albertese come Olindo Guerrini.

Di formazione scientifica - fu, infatti, professore di matematica - Talanti nutre un profondo interesse per la letteratura e la storia, tanto è vero che ha prodotto una monumentale Storia d’Italia, già in stampa presso Mondadori, a Milano, ma andata perduta a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale. Il Nostro, noto ai suoi compaesani con il soprannome di “Cecco e’ mat”, stravagante, ma geniale, si fa apprezzare, oltre che per la stoffa poetica, anche per alcune teatralità: un giorno, infatti, presentatosi davanti a sua madre con due secchi pieni di latte, le dice: “Adès a sèn a pera!” (Ora siamo pari, alludendo al fatto di essersi sdebitato del latte materno bevuto da neonato).

In “A dila s-ceta”, possiamo trovare i sei canti dell’Inferno dantesco tradotti in dialetto romagnolo da Talanti: meraviglioso, ad esempio, il quinto, quello che vede protagonisti Paolo e Francesca. Oltre a ciò, si apprezzano poesie serie, come quelle sul tema della morte – i cui frammenti trovate nel nostro libro – e liriche più scherzose, provocatorie, in linea con il personaggio Talanti.

Il poeta, morto nel 1946, riposa presso il cimitero di Sant’Alberto.

Ad maiora!