mercoledì 23 luglio 2025

Sant'Apollinare, martire e vescovo della cristianità

di Fabio Pagani


Cari amici,

oggi, come sappiamo, si festeggia Sant’Apollinare, patrono della città di Ravenna. Ecco un piccolo passaggio sui binari della storia, oggi come non mai degna di essere raccontata. Come per la maggior parte dei santi del I secolo, non abbiamo molte fonti storiche; alcuni collocano il personaggio nello stesso periodo in cui visse Pietro, altri un po’ più in avanti, vale a dire attorno al 200 d.C.

Il giovane Apollinare vive ad Antiochia (l’antica Turchia) e proviene da una famiglia di religione pagana, quindi politeista. Un giorno, però, dalle sue parti giunge Pietro a predicare una nuova fede dalla quale Apollinare si fa subito rapire. A quel punto, il giovane segue l’apostolo a Roma con una missione ben precisa: la capitale dell’Impero è solo una tappa per Apollinare, che infatti viene inviato a Classe dove la flotta romana dispone di una schiera di oltre 300 marinai provenienti dall’Oriente.

Apollinare si distingue subito per le sue doti di leader e Pietro decide di affidargli la costruzione della prima chiesa cristiana a Ravenna, di cui quel giovane venuto da Antiochia diventa proto vescovo. La convivenza con le antiche credenze pagane non è però semplice, tant’è che Apollinare viene più volte picchiato perché si rifiuta di consacrare offerte materiali ad idoli che il Cristianesimo, naturalmente, non riconosce.

Sant'Apollinare

Dopo circa 30 anni di reggenza della chiesa ravennate, attorno al 70 d.C. Apollinare è picchiato a sangue dagli emissari dell’imperatore Vespasiano perché si era, ancora una volta, rifiutato di cedere alla religione pagana. Il vescovo di Ravenna morirà qualche giorno dopo il pestaggio nel luogo in cui, nel 549 d.C., gli verrà consacrata la basilica di Sant’Apollinare in Classe (costruita 15 anni prima). Nel IX secolo, i resti mortali di Sant’Apollinare saranno traslati nella chiesa di Sant’Apollinare Nuovo.

A questo punto, buon Sant’Apollinare a tutti!

 

mercoledì 16 luglio 2025

NORTH SENTINEL ISLAND

Uno scrigno antropologico nel golfo delle Andamane

Un nuovo ingresso nella nostra redazione: si tratta di Francesco Costa, insegnante di scuola materna e studente universitario, nonché esperto di biologia marina e di tutto quel che riguarda la natura. Francesco ci regala un bell'articolo sulla North Sentinel Island, posto unico al mondo nel quale vive ancora una tribù di indigeni. Di veri indigeni, che non hanno mai avuto contatti con la civiltà. Leggendo l'articolo, capiremo come il governo indiano e le autorità stiano gestendo questo importante patrimonio dell'umanità.

In fondo alla pagina, una breve biobibliografia dell'autore. Benvenuto, Francesco!

di Francesco Costa

Nel 2025 la società umana ha ormai raggiunto un elevato livello di sviluppo nei continenti ed in tutte le terre: l’essere umano ha costruito società moderne ed efficienti, ormai simili in tutto il mondo.

Il processo di globalizzazione ha accomunato i popoli della terra tramite tratti simili e risulta oggi difficile pensare ad una società primitiva, quando ancora l’uomo non conosceva la scienza e la tecnologia. Sembra impossibile che al giorno d’oggi esistano ancora persone che non conoscono internet, le automobili o la radio, eppure questi individui ci sono, anche se in numero esiguo.

C’è un’isola situata nel golfo del Bengala all’interno dell’arcipelago delle Andamane, denominata North Sentinel Island, non troppo distante dall’India, che nasconde un interessante segreto antropologico; in questo luogo infatti abita una tribù di indigeni, che non ha mai avuto alcun contatto prolungato con il mondo esterno per migliaia di anni, preservando una struttura sociale, organizzativa e tecnologica primitiva, simile a quella dei nostri antenati, vissuti migliaia di anni fa.

Una veduta dall'alto di Sentinel Island

Si ipotizza che sull’isola abitino dalle 50 alle 500 persone, ma la stima non è certa; inoltre la popolazione nativa non può essere certamente censita, in quanto si dimostra estremamente aggressiva nei confronti di qualunque visitatore esterno che si appresti a sbarcare sull’isola. Tramite l’utilizzo di armi come archi, frecce e rudimentali giavellotti, la popolazione locale aggredisce qualunque barca o velivolo che si avvicini troppo all’isola, dimostrando di non volere alcun contatto con il mondo esterno.

Soltanto durante alcune rare missioni governative e scientifiche si è potuto osservare, anche se da una certa distanza, la popolazione locale, che appare comunque belligerante e poco accomodante.

Si ipotizza che questo popolo abiti l’isola da circa 60.000 anni e, non avendo avuto praticamente nessun contatto con il mondo esterno, preservi gli usi e costumi della vita tribale, rappresentando uno scrigno antropologico di conoscenza sulla condotta ancestrale dell’uomo e sulla sua origine.

Foto originale degli indigeni dell'isola

Attualmente l’amministrazione delle Andamane ha dichiarato di non voler interferire in nessun modo con la vita degli abitanti dell’isola, i Sentinelesi, e di non tentare alcun contatto con loro, impedendo alle navi ed ai velivoli di sostare sull’isola e vietando gli sbarchi sul territorio, al fine di tutelare la tribù ed il suo delicato stile di vita.

In passato non sono mancati incidenti di curiosi che hanno deciso di violare il divieto ed avventurarsi sull’isola: tutti costoro non sono mai tornati indietro e sono stati uccisi dai locali; anche per questo il governo dell’India ha dato direttive alle proprie navi di non avvicinarsi per nessun motivo all’isola e di non cercare contatto con i Sentinelesi, al fine di tutelare loro e i marinai Indiani.

In un mondo cosi avanzato come il nostro, dove la velocità e la tecnologia la fanno ormai da padroni, esistono ancora rarissimi luoghi di lentezza, dove il tempo sembra essersi fermato, dove i saperi ancestrali ed antichi dell’uomo dominano ancora la realtà, uno di questi è proprio North Sentinel Island, dove un piccolo popolo vive ancora in modo naturale, ignorando la modernità e lo sviluppo del ventunesimo secolo, rappresentando una perla rara per la collana della storia umana, perla, che sarà nostro compito preservare per i prossimi millenni.

Francesco Costa (2000) è un giovane poliedrico che coltiva moltissimi interessi: dai viaggi alla biologia marina fino alle piante e a tutto ciò che riguarda la natura. 
Laureato alla triennale di Scienze dell’Educazione, lavora da tempo come insegnante nella scuola materna, in attesa di conseguire l’alloro per la specializzazione che gli consentirà di esercitare anche nella scuola primaria. Collabora con l’Università per Adulti di Alfonsine e fa parte della Whale Watch Liguria, con cui realizza escursioni marittime nel “Santuario dei cetacei”. Ha alle spalle una pubblicazione dal titolo “I miei 10 anni tra le balene” (autoprodotto).



martedì 8 luglio 2025

ITALIA ’90, le nostre “Notti Magiche” di cristallo

di Fabio Pagani

L’8 luglio di 35 anni fa si chiudevano i mondiali di calcio di Italia ’90. Molto più di una semplice manifestazione sportiva.

"Ciao", la mascotte dei mondiali

Quella sera, allo stadio “Olimpico” di Roma, scesero in campo Argentina e Germania in una finale che, noi italiani, avremmo dovuto e voluto disputare: ci furono fatali i calci di rigore nella semifinale contro i sudamericani, giocata a Napoli, nel regno di Maradona. Il mondiale lo vinsero i tedeschi, destinati a vendicarci battendo la nazionale albiceleste con un tiro dagli undici metri trasformato dal compianto Andreas Brehme.

Maradona e Matthäus, capitani di Argentina e Germania nella finale

Quella coppa del mondo rappresentava la chiusura del cerchio di un decennio, quello degli anni ’80, che per l’Italia voleva dire benessere, denaro, opulenza: uscito dagli “anni di piombo”, il Paese rinacque, pur portando dentro di sé le proprie naturali contraddizioni; in politica vi fu il primo governo socialista della storia repubblicana, il mondo della comunicazione venne travolto dal fenomeno delle televisioni private di Berlusconi, l’imprenditoria vide la vertiginosa ascesa dei cosiddetti “yuppies”, giovani professionisti molto attenti al proprio aspetto esteriore e dediti alla bella vita.

La stessa RAI, il 5 giugno del 1990, inaugurò i nuovissimi studi di Saxa Rubra e mise in campo – è proprio il caso di dirlo – un sistema avveniristico per riprendere tutte le partite del mondiale e ciò che ne faceva da contorno.

Nei mesi precedenti la manifestazione, furono costruiti e rinnovati gli stadi: ex novo, il “Delle Alpi” di Torino ed il “San Nicola” di Bari, vere e proprie cattedrali nel deserto mai decollate; la spesa complessiva per l’edificazione degli impianti fu di circa 1250 miliardi di lire (rispetto ai 250 miliardi preventivati…) e toccò gli oltre 7 miliardi considerando tutte le opere pubbliche nate ad hoc.

Gli effetti di questo spreco si sarebbero palesati per oltre 25 anni sulle casse dello Stato; quello che, invece, a breve sarebbe accaduto al Paese lo sappiamo tutti: l’illusione di Italia ’90 tramontava in campo con il rigore parato da Goycochea ad Aldo Serena, sugli scranni della politica con lo scandalo denominato “Tangentopoli”, con cui si sarebbe chiusa l’epoca dei partiti della cosiddetta “prima Repubblica” e di quel benessere di superficie di fine anni ’80.

Ma a noi, che nell’estate del 1990 avevamo 8 anni, restano impresse le emozioni del primo mondiale della nostra vita, del clima elettrico che si respirava e di quella voglia di sognare che l’andare del tempo fatalmente sbiadisce. E poco importa se non abbiamo vinto.

Il compianto "Totò" Schillaci, eroe delle "Notti Magiche"


lunedì 9 giugno 2025

Nella Ferrara di Giorgio Bassani: dai Finzi Contini alla Lunga Notte del '43

di Fabio Pagani

Nel 25esimo anniversario della scomparsa dello scrittore Giorgio Bassani, abbiamo deciso di andare alla scoperta dei luoghi più significativi della città di Ferrara, dove egli è nato e dove ha ambientato gran parte delle proprie storie. L’occasione ci viene offerta dalla visita dei nostri amici reggiani: già, proprio loro! Ricordate che li avevamo portati in giro per Ravenna, più o meno poco dopo Natale?

In una calda giornata di giugno, ci troviamo in Corso Ercole I d’Este, le cui mura, ai lati della strada, ricorrono spesso nel film “Il giardino dei Finzi Contini”, di Vittorio De Sica, tratto dall’omonimo romanzo di Bassani. Nella pellicola, che racconta la storia di questa nobile famiglia ebrea di Ferrara, in cui la bella Micol è corteggiata dall’amico d’infanzia Giorgio, si vedono i due giovani, insieme ad altri amici, varcare il portone che separa il corso dal meraviglioso parco interno della villa; Bassani, nel romanzo, non indica volutamente i luoghi precisi della città in cui ambienta la storia, ma li lascia immaginare al lettore. 

L'ingresso del parco di Corso Ercole I d'Este

Il parco, in effetti, c’è ed è il giardino pubblico Massari, che però non assomiglia per niente a quello del film! De Sica ha scelto l’orto botanico di Roma per girare le scene in cui gli amici di Micol giocano a tennis nel grande polmone verde della villa Finzi Contini, mentre la dimora individuata per le riprese degli interni si trova in Brianza. Realtà (i Finzi Contini non sono mai esistiti, ma vengono con certezza identificati nella famiglia Magrini, vittima delle leggi razziali), finzione e fantasia si mescolano magicamente, dando vita e corpo ad un romanzo e al relativo film fra le creazioni più belle di sempre.

Micol, Giorgio e i loro amici nel grande giardino

La penna di Bassani (ebreo e, per questo, sepolto nel cimitero ebraico di Ferrara) scorre fluida anche in un’altra opera, “Le cinque storie ferraresi”: fra queste, menzioniamo “Una notte del ‘43”, che richiama un fatto vero, vale a dire l’uccisione del federale fascista Ghisellini, rivisitato in chiave narrativa e intrecciato alla vicenda privata di Pino Barilari, farmacista reso invalido dalla malattia, che passa giorno e notte alla finestra sopra la farmacia di sua proprietà, affacciata su Largo Castello, di fronte alla rocca estense. 

Anna e, alla finestra, il marito Barilari

Proprio lì, il 15 dicembre 1943 (la data è posticipata di un mese rispetto alla vera storia), undici antifascisti sono fucilati come capro espiatorio per l’assassinio del federale Bolognesi, freddato in realtà dai sicari di Carlo Aretusi, detto “Sciagura”, che ne avrebbe preso il posto. Una notte di sangue, registrata dagli occhi di Barilari, mentre la sua bella e giovane moglie, Anna, si trovava a casa di Franco, l’amante, figlio dell’avvocato Villani, trucidato nell’esecuzione di Largo Castello. Il film, girato nel 1960 come opera prima di Florestano Vancini, è ancora oggi bellissimo e ci regala scorci e luoghi veri di Ferrara, riportati fedelmente sia nel racconto di Bassani che nella pellicola. L’immortalità de “Il giardino dei Finzi Contini” e de “La lunga notte del ‘43” la dobbiamo anche ai grandi attori che ne sono stati protagonisti: Dominique Sanda (Micol), Lino Capolicchio (Giorgio), Giampiero Malnate (Fabio Testi) e Romolo Valli (padre di Giorgio) per il primo film; Enrico Maria Salerno (Pino Barilari), Gino Cervi (Carlo Aretusi), Gabriele Ferzetti (Franco Villani) e Belinda Lee (Anna) per il secondo.

Gino Cervi ("Sciagura") e Enrico Maria Salerno (Barilari)

Terminata questa emozionante pagina letteraria e cinematografica, una buona pausa ristoratrice a base di cappellacci ferraresi ha intervallato mattina e pomeriggio, nel quale abbiamo percorso le vie del ghetto ebraico, via delle Volte e via Vignatagliata per concludere in bellezza visitando il Castello Estense: le sue antiche prigioni, con gli umidi e stretti cunicoli, ma anche gli immensi e raffinati saloni, sembrano ancora dare voce all’epoca d’oro di una delle casate più prestigiose della storia.

Vi lasciamo con i minuti finali del film "La lunga notte del '43", in cui Aretusi incontra, dopo tanti anni, Franco, salutandolo come un vecchio e caro amico. Sappiamo che, in realtà, l'ex federale fascista fu responsabile della morte del padre di Franco che, però, dimostra di esserne completamente all'oscuro...

 Scena finale del film "La lunga notte del '43"

 

domenica 25 maggio 2025

Romagna, terra di briganti e di sogni infranti

di Fabio Pagani 

Qualche sera fa mi è capitato di assistere allo spettacolo teatrale La Ligaza di Trentasì, liberamente ispirato alle vicende di briganti che, a cavallo dell’800, hanno tormentato la Romagna. Malfattori, delinquenti che, per qualche bizzarro motivo, sono diventati il simbolo di una terra ribollente di ideali anarchici e ribelli (vedi Stefano Pelloni, detto Il Passator Cortese).

La Ligaza di Trentasì, magistralmente diretta dalla regista Giulia Torelli, mi ha fatto venire in mente un bel libro che ho letto alcune settimane fa e che ho avuto il piacere di presentare insieme al suo autore: si tratta de Il gradino di terra, scritto da Agide Vandini, e contenuto nella trilogia Romagna Ardente.

Copertina de "Il gradino di terra" 

Vandini vive a Filo di Alfonsine e da molti anni si dedica alle vicende del territorio e del mondo popolare; è curatore del blog L’irôla de’ Filés, nel quale pubblica racconti, ricerche e approfondimenti sulla Romagna e non solo. È nipote di Agida Cavalli, a cui deve il proprio nome, eroina della Resistenza di Filo trucidata dai fascisti 80 anni fa.

Il gradino di terra contiene le avventure di Sante e Michele, due fratellastri figli di scariolanti e contadini, che affrontano in maniera opposta un mondo dominato da ingiustizie e disparità sociali: il primo, abbraccia la vita agreste, mentre il secondo si dedica al brigantaggio e, fra realtà e fantasia, può identificarsi con il “Falcone”, uno dei banditi più celebri del tempo. La storia è incardinata in una cornica storica, che prende corpo dalla descrizione della situazione del Po di Primaro a fine ‘700, la cui rottura a seguito dell’alluvione del 1756 maturò la realizzazione di imponenti drizzagni, documentati nel libro da mappe e riferimenti grafici che arricchiscono la narrazione. Nel romanzo, grande rilievo viene dato al sacco di Lugo del 1796: “Oltre all’epopea degli scariolanti vissuta dai protagonisti, l’evento più importante negli anni a cavallo del secolo (1780-1821) è senza dubbio la calata dei francesi in Romagna con le tragiche conseguenze che travolgono la città di Lugo”, sottolinea Vandini. Le truppe napoleoniche, infatti, fra il 23 giugno e il 6 luglio del 1796, nonostante la fiera opposizione della popolazione lughese riuscirono ad avere la meglio, saccheggiando e depredando tutto, compreso il busto di Sant’Illaro, che venne portato via.

 L'autore, Agide Vandini

Fra rigore storico e invenzione narrativa, Vandini ha dato vita ad un’opera accattivante e densa di avvenimenti e colpi di scena: “Reale e documentato – specifica l’autore – è il riassetto delle acque romagnole descritto nel prologo, così come il già citato sacco di Lugo, di cui ho cercato di riportare un sunto fedele; quanto ai personaggi, ho preferito in alcuni casi distorcerne il cognome, date le non sempre edificanti attribuzioni romanzesche”.

 

 

mercoledì 7 maggio 2025

UN CONCLAVE PER LA STORIA

di Fabio Pagani

In questi giorni tutto il mondo ha i fari puntati sulla Città del Vaticano, dove lo scorso 26 aprile sono stati officiati i funerali di Papa Francesco. Un momento storico, molto sentito dai fedeli, che va rispettato.

Ciò che più ci intriga, in un certo senso, è quello che succederà a seguire: dopo i nove giorni di lutto, stabiliti per protocollo quando muore un pontefice, dal 7 maggio ha preso il via il conclave che, come abbiamo avuto modo di raccontare nella nostra breve clip, affonda le radici nel Medioevo, quando i cardinali iniziarono a rinchiudersi a chiave (cum clave, appunto), nelle segrete stanze della curia romana per eleggere il nuovo Vescovo di Roma.

L'ultimo Conclave (2013)

Nei secoli, questa “prassi” è stata spesso etichettata in modo critico, a tratti anacronistico, sicuramente colorito e folcloristico.

Ma andiamo con ordine e partiamo dall’accezione pratica dell’espressione conclave: anticamente era raro che vi fossero porte dotate di serratura e, quelle che ne disponevano, chiudevano stanze o edifici di particolare importanza. Per esempio, il diritto romano era molto severo verso chi rubasse o falsificasse la chiave della cella vinaria, dove veniva conservato il vino.

In ambito ecclesiastico, la prima volta in cui viene utilizzato il termine conclave risale al 1216, quando viene eletto Papa Onorio III; in realtà – e questa è una chicca – il “battesimo” del conclave fu un altro: siamo nel 1268, anno in cui muore il Pontefice Clemente IV. A quel tempo, la sede papale era a Viterbo, detta “città dei Papi” perché fu scelta da Alessandro IV per allontanare la chiesa dal clima ostile che c’era a Roma, e lì iniziarono a riunirsi i cardinali per l'elezione del successore al soglio di Pietro. Quel conclave durò addirittura tre anni! Questo perché gli interessi – politici ed economici – in gioco erano altissimi; visto che i porporati non riuscivano a mettersi d’accordo, i cittadini di Viterbo presero in mano la situazione e chiusero a chiave gli elettori in una sala del Palazzo dei Papi, razionando loro il cibo e lasciandoli al freddo. Insomma, queste condizioni spinsero i religiosi a darsi una mossa e ad eleggere Papa Gregorio X.

Il film "Conclave", di E. Berger (2024)

Dicevamo che il conclave non è sfuggito agli strali delle penne più pungenti e anticlericali dei poeti, in particolare di Olindo Guerrini, fiero avversario della chiesa e dei suoi potenti. Chiudiamo con uno dei sonetti che il Guerrini dedica al mondo religioso della curia romana, intitolato “Conclave”: ecco cosa fanno i cardinali mentre dovrebbero impegnarsi nelle loro alte vicende:

E’ Cunclev, Pulinera, eccol iqué / E’ corr a Roma stanta vis d’e’ cazz

Is sera in Vatican cun e’ cadnazz / E i magna com i ludar tott i dé.

Dop is grata la panza, i to e’ cafè / E in t’ la sela piò granda d’e’ palazz

Is radona a vutè pr’ e’ piò cazazz / E l’è par quest ch’in vota mai par mè.

E intant ch’i vota i da d’intendar ch’i ha / E’ su Spiritusant ch’e’va e ch’e’ven

E ch’ui insegna al purcarì ch’i fa.

Puvar Spiritusant! Sui passa vsen / Vut ch’at e’dega mè quel ch’ui dirà?

“Azident che possa da scapen…!”

 

Il Conclave, Apollinare, eccolo qui / Corrono a Roma settanta teste di cazzo

Si chiudono in Vaticano con il catenaccio / E mangiano come otri tutti i giorni.

Dopo si grattano la pancia, prendono il caffè / E nella sala più grande del palazzo

Si radunano a votare per il più cazzaccio / Ed è per questo che non votano mai per me.

E intanto che votano danno a intendere che hanno / Il loro Spirito Santo che va e che viene

E che insegna loro le porcherie che fanno.

Povero Spirito Santo! Se passa loro vicino / Vuoi che te lo dica quello che dirà?

“Accidenti, che puzza di calzini sudici…!”

 

Fonti:

O. Guerrini, Sonetti romagnoli, Zanichelli, Bologna, 1957.

O. Guerrini, Sonetti romagnoli. Edizione e commento a cura di Renzo Cremante con traduzione di Giuseppe Bellosi, Longo Editore, Ravenna, 2021.

 

 

giovedì 24 aprile 2025

SULL’ESARCA ISAACIO E LA PRESENZA ARMENA A RAVENNA

Pubblichiamo l'interessante approfondimento su un tema poco noto ai più: il genocidio armeno. Il 24 aprile 1915, infatti, iniziò la più grande dispersione di questo popolo che, da quel giorno, fu costretto a vagare in tante parti del mondo, Italia compresa.

Ma la storia inizia molto prima, vale a dire nell'Alto Medioevo, quando anche Ravenna fu governata da politici, i cosiddetti "esarchi", di origine armena...

Ringraziamo per questo contributo Gabriele Giovannini, giovane studente laureando in Storia medievale e appassionato della cultura dell'Armenia. 24enne di Massa Lombarda, Gabriele è entrato a far parte della squadra dei nostri collaboratori e lo fa con un approfondimento davvero pregevole.

Buona lettura!


di Gabriele Giovannini

La formazione di una presenza armena in Italia si fa generalmente risalire al 1915, data che segna l’inizio del genocidio armeno e della grande diaspora di cui è stato protagonista questo popolo. I tragici eventi intercorsi tra il 1915 e il 1923 hanno provocato una dispersione forzata degli armeni verso altri territori e sono stati cruciali nella creazione di molteplici e consistenti comunità nei più disparati angoli del mondo. Volgendo lo sguardo più indietro nel tempo, tuttavia, si può notare come il popolo armeno sia sempre stato contraddistinto da una grande mobilità. Ci sono nazioni, infatti, in cui la presenza armena è documentata fin da secoli ben precedenti al Novecento. Come testimoniano le fonti, dall’ XI secolo in poi abbiamo notizia dell’esistenza di vere e proprie colonie nel Vicino Oriente, ma anche in Europa e, con l’avvento della modernità, si attesta la presenza di insediamenti persino in India e nell’Estremo Oriente.

Per quanto riguarda l’Italia che, insieme a Francia e Spagna, figura tra le principali destinazioni europee, il primo significativo passaggio di genti armene risale all’alto medioevo. Nelle sue immediate manifestazioni non si tratta di un fenomeno omogeneo e continuativo e, stando alle fonti, i primi contatti sono documentati, in realtà, già in età imperiale. Tra queste interazioni è emblematica la visita a Roma del re armeno Tiridate I (Trdat in armeno) della dinastia arsacide, su invito dell’imperatore Nerone. Questo evento rimane, tuttavia, molto diverso rispetto al fenomeno che andrà diffondendosi nei secoli successivi. I contatti, infatti, si intensificano decisamente solo a partire dalla guerra greco-gotica (535-553), che porterà al rientro della Prefettura d’Italia sotto il dominio romano-orientale e, nell’ultimo ventennio del VI secolo, alla creazione dell’esarcato con capitale Ravenna. Il primo a reggere la città fu proprio un generale bizantino di origine armena, Narsete (Nerses), che era sbarcato in Italia per sconfiggere gli Ostrogoti e completare l’opera iniziata nel 535 da Belisario.

Meno conosciuto di Narsete è invece l’esarca Isaacio, del quale ci lasciano testimonianza – in aggiunta alle fonti letterarie – il suo sarcofago e la relativa epigrafe. Questo monumento funebre marmoreo è oggi conservato presso la Basilica di San Vitale a Ravenna ed è quello meglio conservato tra gli esemplari dello stesso periodo. 

Il sarcofago di Isaacio in San Vitale (Ravenna)

Il visitatore che non ne conosca già la storia è difficile che vi si soffermi durante la visita dello splendido sito musivo, ma si tratta sicuramente di un elemento poco noto e interessante da conoscere. L’epigrafe in greco presente sul sargofago di Isaacio, caduto nella battaglia dello Scultenna contro l’esercito del re longobardo Rotari (643), ci permette di conoscere meglio questa figura. L’iscrizione, infatti, si connota come una fonte di grande importanza per la ricostruzione di alcuni tratti biografici dell’esarca e, più in generale, sull’importanza dell’elemento armeno all’interno del contesto bizantino. La traduzione letterale mette in luce i tratti distintivi del personaggio:

1. Qui giace colui che fu valorosamente stratego custodendo inviolati Roma ed il Ponente

2. per tre volte sei anni ai sereni signori, Isaacio, l’alleato degli imperatori,

3. il grande ornamento di tutta l’Armenia; costui era infatti armeno e di nobile stirpe.

4. Essendo morto gloriosamente, la casta moglie Susanna, alla maniera di una venerabile tortora

5. geme incessantemente, essendo stata privata del marito, un uomo che ottenne fama dalle fatiche

6. nel Levante e nel Ponente; comandò infatti l’esercito di Ponente e d’Oriente.


Il testo greco dell'epigrafe sul coperchio del sarcofago

È importante aggiungere che, in virtù delle parole e dei titoli con cui viene appellato, è stato possibile ipotizzare che Isaacio fosse un nakharar, il principe (in italiano il termine armeno può essere tradotto anche “signore”) di una delle più potenti famiglie armene del tempo, quella dei Kamsarakan. E la sua appartenenza alla nobiltà armena potrebbe trovare conferma anche nel fatto che l’esarca fosse sposato con una donna, Susanna, che sembra essere imparentata con la potente casa dei Mamikonean. Famiglia, questa, che aveva dato i natali a Vardan Mamikonean, ricordato per aver guidato gli armeni contro i Sasanidi nella tragica battaglia di Avarayr (451) che, nonostante si tradusse in una sconfitta, garantì poi agli armeni che vivevano all’interno del dominio persiano di poter professare liberamente il cristianesimo. La presenza tra gli alti ranghi dell’esercito bizantino di strateghi e comandanti armeni è facilmente comprensibile se si considera l’importanza che la cavalleria armena ebbe in ambito bizantino fin dalle campagne di Giustiniano, che vi fece ampio ricorso non solo in Italia ma anche contro le popolazioni slave nella penisola balcanica. L’Armenia, di fatto, fu il principale bacino di reclutamento dal quale attingere per alimentare i ranghi della cavalleria romana. A Ravenna questo si tradusse non solo nella presenza di esarchi di origine armena, ma anche nella permanenza di un numerus Armenorum, un contingente armeno, nella zona di Classe. Con la fine dell’Esercato, caduto per mano longobarda, i contatti tra l’Italia e gli armeni sembrano diminuire e bisognerà attendere il X secolo per tornare ad avere notizia di qualche presenza su suolo italiano. Presenza che, da quel secolo in poi, sarà sempre più rappresentata da monaci, pellegrini e mercanti. Alcuni di loro potrebbero essere stati assimilati dal tessuto sociale locale fino a far perdere le tracce delle proprie origini, mentre in altri casi, come quello degli Sceriman (o Scerimanian) a Venezia, la loro provenienza è rimasta chiaramente documentata.

Dettaglio laterale della tomba di Isaacio

È evidente che, sebbene la diaspora del secolo scorso abbia cause e dimensioni peculiari, quello armeno è un popolo che ha sempre dimostrato di avere una grande capacità di spostarsi e inserirsi in nuovi contesti culturali, arrivando a creare vere e proprie colonie. Il caso di Ravenna rappresenta la prima permanenza continuativa degli armeni sulla Penisola, una presenza che nei secoli successi si intensificherà in città come Roma, Milano, Trieste, Padova e la sopracitata Venezia.


Fonti:

Rossi, G. Storie Ravennati, Traduzione di Pierpaoli, M. 1996

Fiori, F. Epigrafi greche dell’Italia Bizantina (VII-XI secolo). 2008

Uluhogian, G. Gli armeni. Bologna. 2015

Aslanian, S. On the boundaries of History: The Armenian Diaspora of the Early Modern Period. 2020


L'autore

Gabriele Giovannini, 24 anni, di Massa Lombarda. Studente di Storia medievale presso l'Università di Bologna, coltiva la passione per la cultura armena. Con questo articolo d'esordio, entra a far parte della nostra squadra di collaboratori. Benvenuto, Gabriele!

 












 

 


martedì 8 aprile 2025

Una vetrina “reale” per Carlo e Camilla

 di Fabio Pagani

Oggi torniamo ad occuparci delle realtà imprenditoriali del territorio e l'occasione ci viene data dall'imminente - e attesissima - visita a Ravenna di Carlo e Camilla d'Inghilterra. Abbiamo approfittato di questo unicum per intervistare Sandra D'Orazio, titolare del negozio "Salvagente Outlet 2", ubicato in via Boccaccio 10 (in pieno centro) e quindi interessata all'arrivo del Re e della Regina d'oltre Manica.

Sandra D’Orazio, imprenditrice ravennate titolare di “Salvagente Outlet 2”, negozio specializzato in taglie morbide per signore, dalla 44/46 alla 64/66, ci racconta l’attesa febbrile per l’arrivo dei reali di Inghilterra, che saranno a Ravenna giovedì 10 aprile. Per l’occasione, la vetrina del suo negozio godrà di uno speciale allestimento: “Quando sono venuta a conoscenza della visita di Carlo e Camilla – sottolinea Sandra - , esponenti di una delle monarchie più seguite a livello mediatico nel mondo, ho pensato, insieme alle mie collaboratrici e a mia sorella Silvia, professoressa di mosaico ed Interior Designer, a qualcosa di particolare: Silvia ha realizzato delle cornici in cartapesta, all’interno delle quali sono state collocate le fotografie di Camilla e Carlo, mentre io mi sono occupata dei vestiti. Che dire, siamo tutte molto in fermento ed emozionate per questo evento e siamo felici di avere creato una vetrina interattiva, mettendo in evidenza i nostri illustri ospiti, che danno pregio all’esposizione”.

La vetrina allestita per Carlo e Camilla

“Salvagente Outlet 2” vive da tempo in città. Ancora Sandra D’Orazio: “Ho aperto l’attività nel 2009 soprattutto perché quello curvy era l’unico mercato che aveva una bella fetta di visibilità. Ho anche la fortuna di essere circondata da amiche con taglie morbide, che si sono sempre prestate per fare le modelle nelle dirette social: in questo modo le clienti vedono i vestiti indossati dalle ragazze e si immedesimano in loro, nella loro fisicità e ciò avvicina molto la clientela, non solo ravennate, al prodotto”.

La passione per la moda non è una novità in casa D’Orazio: “Il mio percorso lavorativo è stato sempre nell’ambiente dell’abbigliamento, prima nelle taglie piccole e poi, come detto, in quelle morbide. Dal 2020, dopo la pandemia, abbiamo voluto riaprire il negozio con una spinta diversa, grazie anche al supporto di mia sorella Silvia: l’idea è stata quella di decorare il locale con pannelli che potessero attrarre le persone, investendo su allestimenti alternativi che spingessero i ravennati ad uscire di casa e a gustare la curiosità di entrare nel nostro negozio. 

Sandra D'Orazio di "Salvagente Outlet 2"

Per fare un esempio, il primo quadro realizzato da Silvia è stata una rivisitazione dell’abbraccio di Klimt, prodotto con i pezzettini di stoffa ritagliati dai vestiti, a simboleggiare il ritrovarsi dopo il lungo periodo di isolamento; oppure altre creazioni in collaborazione con Linea Rosa, con cui continuiamo ad avere ottime sinergie e che supportiamo continuamente”.

“Salvagente Outlet 2” si trova nel centro di Ravenna, in via Boccaccio 10 (davanti al teatro Alighieri) e le sue proposte sono visibili anche sulla pagina Instagram del negozio (salvagenteoutlet2).


mercoledì 26 marzo 2025

La Repubblica insanguinata degli Anni di Piombo

di Fabio Pagani

Quante volte abbiamo sentito parlare degli “Anni di Piombo”? Nel mio caso, tante. Televisione, giornali, radio e cinema hanno spesso trattato questo argomento, che altro non è che una stagione della nostra vita, lontana nel tempo, ma ancora molto presente. E’ stata la regista tedesca Margareth Von Trotta, con il suo film “Anni di Piombo” (titolo originale: Die bleierne Zeit), uscito nel 1981, a coniare l’espressione. La pellicola narra la vicenda delle sorelle Ensslin, una delle quali, membra di un partito terroristico tedesco di estrema sinistra, viene trovata morta nella prigione di sicurezza di Stammheim nel 1977.


Stando all’Italia, parliamo degli anni ’70, anche se, per essere precisi, dovremmo indicare una forbice cronologica che va dal 1969 al 1980; undici anni nei quali il Paese è squarciato da stragi, omicidi, delitti e intimidazioni a sfondo politico estremista, sia di destra che di sinistra. Usciamo, come del resto tutto il mondo occidentale, dagli anni ’60 e dalle sue conquiste: il benessere economico e sociale sono una faccia della medaglia, mentre l’altra riporta il lato più oscuro del cambiamento.

La nascita di una moderna economia industriale, soprattutto nell'area tra Milano, Torino e Genova, spiazza una società modellata sui ritmi della produzione agricola. Inizia uno spopolamento dei piccoli centri a vantaggio delle grandi città, che in breve si trasforma in un'emigrazione di massa.

Così, alla fine del decennio, l'Italia è scossa da due ondate di radicale contestazione: la prima, nel 1968, animata dal Movimento Studentesco che chiede più giustizia sociale e meno autoritarismo; la seconda, nel 1969, innescata dalle rivendicazioni degli operai (il cosiddetto "autunno caldo"). Manifestazioni, scioperi, occupazioni di fabbriche sono all'ordine del giorno. Si avvia un conflitto sociale di vaste dimensioni e l'Italia sembra spostarsi a sinistra. Nascono aspettative rivoluzionarie in molti studenti e operai che avrebbero voluto superare il capitalismo. I governi e gli organi dello Stato diventano sempre più reazionari pur di fermare questo sommovimento sociale.

La protesta operaia negli anni '70


L'Italia fa parte dell'alleanza atlantica guidata dagli Stati Uniti ed è condizionata dalla “Guerra fredda”: l'anticomunismo, infatti, era stato la priorità strategica fin dal dopoguerra. Il Partito Comunista Italiano è il più forte di tutto l'Occidente e aveva contribuito alla sconfitta del Fascismo. Ma è legato all'URSS e per questo escluso dal governo nazionale.

Le prime proteste studentesche, le occupazioni universitarie, gli assalti nelle piazze e quel senso di profonda insofferenza verso l’ordine costituito sono le premesse alla deriva che, di lì a poco, si sarebbe tradotta in tragedia. 12 dicembre 1969: con la strage di piazza Fontana, a Milano, ordita dal movimento politico di estrema destra extraparlamentare “Ordine Nuovo” nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, ha inizio la strategia della tensione che insanguinerà il Paese con attentati terroristici fino agli anni ’80. In particolare, questo primo evento causa 17 morti e 88 feriti ed è ritenuto da più parti come l’inizio del periodo degli “Anni di Piombo”. A quella di Milano si sarebbero succedute altre violenze: nel 1974 le stragi di piazza della Loggia, a Brescia, e del treno Italicus, che, nei pressi di Bologna, è oggetto di un attentato dinamitardo in cui muoiono 12 persone. Il 2 agosto 1980, infine, la strage della stazione di Bologna, macchiata da 85 morti e oltre 200 feriti. Queste prime quattro carneficine furono al tempo tutte rivendicate dall’estrema destra.

Non solo, purtroppo, il terrorismo nero, ma anche quello rosso macchia quegli anni. Esso è un tipo di eversione armata d'ispirazione comunista che porta molti ragazzi a sparare e uccidere, infatuati dalla folle idea di provocare un sollevamento delle masse oppresse. In una fase storica di maggior distensione nella “Guerra fredda”, DC e PCI (Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano). cercano un accordo per superare la crisi democratica: si apre una nuova stagione politica. L'estrema sinistra non accetta questo tentativo di compromesso storico (ma c’è da chiedersi se soltanto le Brigate Rosse volessero ostacolare l’accordo…) e si generano decine di formazioni che impugnano le armi.

Il primo obiettivo diviene l'attacco "al cuore dello Stato". L'episodio più clamoroso è il sequestro, dal 16 marzo al 9 maggio 1978, del presidente della Dc Aldo Moro. ucciso dopo 55 giorni di prigionia. Persino l’appello del Papa, Paolo VI, rimane inascoltato: “Liberate Moro, semplicemente, senza condizioni” (Lettera alle BR del 21 aprile 1978).

Il corpo di Aldo Moro ritrovato nella Renault 5

L’evoluzione del fenomeno delle BR prende, poi, una direzione ben precisa: alcuni brigatisti iniziano a collaborare con le autorità e le BR vengono sconfitte da una repressione fortissima cominciata subito dopo l'uccisione di Moro. La Repubblica non crolla, ma il prezzo per uscire dagli anni di piombo fu altissimo.

Chiudiamo il nostro contributo citando una frase molto eloquente tratta dal libro “Puzzle. Serie completa”, scritto da Tommaso Labate e Filippo Rossi: “L’Italia degli anni '70 è come l’identikit di un serial killer che dobbiamo disegnare daccapo, pezzo dopo pezzo, è un puzzle che comporremo tassello dopo tassello, dove ciascun tassello si spiega solo alla luce del precedente ed è legato solo al successivo, mistero dopo mistero”.

 

Fonti a cui si è attinto nella redazione dell’articolo: www.focus.it; www.raistoria.it

 


domenica 9 marzo 2025

Uno sguardo al calendario

 di Fabio Pagani

Tutti sappiamo chi fosse Romolo, secondo la leggenda il fondatore di Roma; parrebbe sua l’invenzione del calendario, nome che deriva dalle Calendae, ovvero i primi giorni del mese. Agosto, ad esempio, non si è sempre chiamato così: in origine era Sextilis, il sesto. Ma il sesto di cosa? Forse i Romani intendono dirci che si tratta di quello che oggi noi chiamiamo Giugno? Qui c’è la sorpresa: Roma aveva istituito un calendario di dieci mesi, che partiva da Marzo ed arrivava a Dicembre. Il Sextilis, quindi, era la sesta tappa di questo tour reale, ma anche simbolico in quanto ogni nome si collegava a precise divinità, festività e superstizioni. E’ Gaio Ottavio, che dal 43 a.C. si chiamerà Ottaviano e dal 27 a.C. Ottaviano Augusto, primo Imperatore di Roma, a stabilire che il sesto mese sarebbe diventato Augustus. Il 15, ovvero le Idi (circa metà mese, appunto) sarebbero state dette Feriae Augusti, vale a dire il giorno di riposo del Princeps che includeva anche moltissime celebrazioni religiose. Prima dell’avvento del figlio adottivo di Cesare, invece, il nostro ferragosto era il momento in  cui si celebravano i Vinalia Rustica, i raccolti e la conclusione dei principali lavori agricoli. Con l’avvento del Cristianesimo e della Chiesa cattolica la festa laica viene fatta coincidere con l’Assunzione della Beata Vergine Maria (a partire dal XVI secolo), mentre pare che l’abitudine italiana delle gite fuori porta, di cui si diceva all’inizio, sia nata durante il Ventennio grazie all’istituzione di treni ferragostani, a prezzo ridotto, per incentivare viaggi e, di conseguenza, consumi.

Ma torniamo al nostro calendario: i 10 mesi originari diventano 12 con Numa Pompilio, il secondo Re di Roma, mentre è Giulio Cesare ad istituire l’anno di 365 giorni e 6 ore. I 360 minuti in eccedenza costituivano ogni quattro anni un giorno in più, che veniva aggiunto non al 28 febbraio, come ora, ma al 24, il Dies Sextus prima delle calende di marzo. Di conseguenza il giorno successivo al 24 febbraio, aggiunto ogni quattro anni, prese il nome di Dies Bis Sextus, da cui derivò, e resta oggi, il nostro Bisextilis (bisestile).

E' papa Gregorio XIII, nel 1582, a consegnare al mondo il calendario come lo conosciamo noi oggi.

E gli altri mesi? Vediamo di svelare qualche curiosità in rapida sequenza.

Gennaio (da Ianus, Giano, ovvero il custode della città).

Febbraio (Februa-orum, cerimonie di purificazione).

Marzo (Mars, il dio Marte, signore assoluto della guerra).

Aprile (da Aprilis/Aperire, in riferimento all’apertura, allo sbocciare della primavera).

Maggio (Maius, da Maia, dea della fecondità).

Giugno (Iuno, Giunone, patrona del mondo femminile e custode del matrimonio).

Luglio (Iulius, in onore di Giulio Cesare; in origine era Quintilis, il quinto mese a partire da marzo).

Cesaricidio, V. Camuccini (fonte: Wikipedia) 

Agosto (se siete stati attenti... lo sapete già!).

Settembre, Ottobre, Novembre e Dicembre (rispettivamente il settimo, l’ottavo, il nono ed il decimo mese a partire da marzo).

Buon calendario a tutti!

giovedì 27 febbraio 2025

LA CHIAVICA DI LEGNO, LUOGO MAGICO E SENZA TEMPO

di Fabio Pagani

La Chiavica di Legno è un borgo che occupa la sponda ravennate della frazione di Filo e che, oggi, è in stato di completo abbandono. La sua storia, però, è ricca ed affascinante e si intreccia con quella dei contadini che, già dagli inizi dell’800, percorrevano la chiavica che collegava il canale Bonacquisto ed il Po Nuovo, poi denominato Reno.

Il passo della Chiavica di Legno rimane in funzione fino alla seconda metà del XIX^ secolo, venendo poi dismesso in favore di nuovi e più comodi tratti come, ad esempio, il ponte della Bastia. Per visitare questo luogo perso nel tempo, vi sono tre possibilità percorribili: via Chiavica di Legno, per chi giunge da Molino di Filo, via Tre Pertiche, che costeggia l’argine del Reno e via Trotta, strada di confine fra i territori ravennati di Filo e Longastrino. Al termine di via Trotta, ai primi dell’800, è attivo il cosiddetto “Passo dell’Anerina” (il termine sarebbe legato alla pianta acquatica della Lemna minor), un traghetto che consente il passaggio di cose e persone, oltre il fiume Santerno, verso Alfonsine e Ravenna: questo snodo rimarrà attivo fino agli anni ’70 del ‘900.

Il traghetto del passo dell'Anerina (1946)

A sinistra del fiume Reno si trova l’imponente Villa S. Anna, già Palazzo Ghedini e poi Tamba, dal nome della famiglia lughese che possedeva anche l’edificio attualmente sede del museo dedicato a Francesco Baracca. Diotallevio Tamba, dapprima prende in affitto i terreni e la dimora da Ghedini, poi li acquista, cedendoli nel 1918 ad un banchiere di Milano. La costruzione è il manifesto della capillare opera di bonifica delle paludi avviata all’alba dell’800; la struttura di questo enorme complesso rurale è simmetrica e prevedeva gli appartamenti del proprietario, due chiese, la ghiacciaia, le dimore dei lavoratori a salario, le stalle, i depositi e i rustici. Si deve la costruzione del palazzo all’Avvocato Cipriano Andrea Ghedini, che vi vide la possibilità di dare sostentamento e lavoro alle famiglie del posto, coniugando l’attività quotidiana dei campi con la possibilità di onorare la fede. Da qui, infatti, l’intuizione di costruire, a fianco dell’edificio, la piccola chiesa di S. Anna, ancora utilizzata dagli abitanti del posto. Il complesso di Villa Tamba, abbandonato e pericolante, è oggi di proprietà della cooperativa agricola di braccianti “Giulio Bellini”, ma, al di là delle vicissitudini gestionali che questa imponente costruzione ha subìto, ciò che impressiona, percorrendo la carraia ghiaiata, è l’inaspettata apparizione di un palazzo monumentale che, nei suoi anni migliori, doveva essere veramente affascinante.
Palazzo Tamba
Poco distante da qui si trovano le vecchie scuole della Chiavica di Legno, in funzione dal 1870 fino alla metà del ‘900; dall’archivio comunale di Alfonsine risulta che Anna Ricci, la maestra del tempo, percepisse uno stipendio di lire 120 per l’opera di riorganizzazione delle attività della scuola. Altre documentazioni, infine, attestano che questo istituto fosse bello, funzionante e ben tenuto e che risultasse compreso in un’area di circa 400 abitanti, completata da una farmacia, una caserma dei carabinieri e dalle già descritte villa Tamba e chiesa di Sant’Anna.

  Le scuole elementari del borgo

Un’altra epoca, un mondo rurale di cui oggi si possono sentire soltanto i caldi soffi del vento estivo qualora, perdendosi nelle campagne fra Alfonsine e Filo, si volesse respirare un po’ di storia dimenticata.

 

Fonti bibliografiche: “L’irôla de’ Filés”, a cura di Agide Vandini, tratto dal sito internet filese.blogspot.com

 



mercoledì 19 febbraio 2025

Vincenzo Monti: uomo libero o servo del potere?

di Fabio Pagani

Tutti sono a conoscenza delle “vicissitudini critiche” di Vincenzo Monti, vissuto in un periodo storico travagliato e segnato da eventi politici profondi, quali la Rivoluzione francese, la Repubblica Cispadana, l’avvento di Napoleone e la Restaurazione messa in atto dalla Santa Alleanza dopo il Congresso di Vienna. L’uomo Monti – secondo quanto si legge in molte storie della letteratura – si piegò a tutti gli avvenimenti divenendone di volta in volta il cantore ufficiale. Da iperboliche esaltazioni si passa a condanne assolute e profondo disprezzo, forse perché nel giudizio delle sue opere si fonde, quando non è dominante, quello della sua vita. Chi lo definisce poeta grande, chi lo dice arcade vuoto e perduto (vale a dire sordo, arido e superfluo rimatore di suoni inesistenti), chi lo celebra come Pater Patriae (Padre della Patria), chi, infine, lo qualifica come strimpellatore. Vediamo, in sintesi, alcuni dei giudizi più celebri sul poeta alfonsinese. 

Ai nostri lettori, il diritto di formulare un'opinione libera e disinteressata.

Vincenzo Monti (ritratto di A. Appiani)

Foscolo

Ugo Foscolo ottenne l’incarico (1800) di redigere le relazioni dell’Assemblea legislativa sul “Monitore Italiano”, soppresso dopo pochi mesi. S’invaghì senza fortuna di Teresa Pikler, moglie di Vincenzo Monti, e fu spinto persino ad un tentativo di suicidio. 

Partì per Bologna, forse anche per sfuggire a quel ricordo, dove trovò impiego in tribunale, collaborò al "Monitore Bolognese" e al "Genio Democratico", pubblicò un’opera di ampio respiro: Ultime lettere di Jacopo Ortis.

Lo scontro con il Monti avvenne per un malinteso, essendo stata erroneamente attribuita al Foscolo la stroncatura di un poemetto didascalico di un poeta amico del Monti. Da lì iniziarono battute a colpi di poemetti, satire, epigrammi. Eccone uno molto tagliente del Foscolo:
Discenderemo entrambi nel sepolcro, voi più lodato certamente, io forse più compianto; il vostro epitaffio sarà un elogio; sul mio si leggerà che, nato e cresciuto fra tristi passioni, ho serbato la mia penna vergine di menzogne.

E ancora il buon Ugo:

Questi è Monti poeta e cavaliero, 
gran traduttor dei traduttor d’Omero.

Il Foscolo scrisse l’epigramma contro Vincenzo Monti, che nel 1810 pubblicò la traduzione dell’Iliade (mentre il vecchio amico non era riuscito nell'impresa...), condotta in gran parte di seconda mano, utilizzando versioni latine ed italiane.

 L'Iliade di Monti (1810)

Il Monti si rifece, mettendo in ridicolo la tragedia Aiace del Foscolo, rappresentata con scarso successo a Milano l’anno dopo.

Per porre in scena il furibondo Aiace
il fiero Atride e l’Itaco fallace
gran fatica Ugo Foscolo non fè:
copiò se stesso e si divise in tre.

Il Monti ancora

Questi è rosso di pel Foscolo detto:
sì falso che falsò fino se stesso,
quando in Ugo cangiò Ser Nicoletto.
Guarda la borsa se ti vien d'appresso!

Leopardi

Ma tutto quello che spetta all’anima, al fuoco, all’affetto, all’impeto vero e profondo, sia sublime, sia massimamente tenero, gli manca affatto. Egli è un poeta veramente dell’orecchio, del cuore in nessun modo (Giacomo Leopardi).

  Giacomo Leopardi

De Sanctis

… La natura gli aveva largito le più alte qualità dell’artista: forza, grazia, affetto, armonia, facilità e brio di produzione. Aggiungi la più consumata abilità tecnica, un’assoluta padronanza della lingua e dell’elocuzione poetica. Ma erano forze vuote, macchine potenti prive d’impulso. Mancava la serietà di un contenuto profondamente meditato e sentito, mancava il carattere, che è l’impulso morale. Pure i suoi lavori, soprattutto l’Iliade (N.B. la traduzione del poema omerico da parte del Monti è, ancora oggi, considerata la versione migliore. E pensate che Monti non conosceva il greco! Forse anche per questo, Foscolo la definì “bella e infedele”), saranno sempre utili a studiarvi i misteri dell’arte e le finezze della elocuzione (Francesco De Sanctis).

Francesco De Sanctis

Carducci

… Il Monti fu un ingegno più vario che non il Metastasio, più pronto e ricco che non il Parini, più facile e vivo che l’Alfieri; seppe rinnovare quel che di usuale e di utile restava nelle consuetudini dell’arte italiana; seppe attingere con discernimento e con gusto alle letterature straniere (…) Fu in somma il maggior poeta ecletticamente artistico che l’Italia da gran tempo avesse avuto

(Giosuè Carducci, vincitore del Nobel per la Letteratura nel 1906).

Giosuè Carducci

Mazzini

Beata la nazione che al cader di un suo figlio degno dell’immortalità, può proferire il detto dello Spartano: Io ho molti figli grandi com’egli fu. Beata la nazione che onora gli illustri perduti con l’educare altri illustri sulle loro tombe (Giuseppe Mazzini).

Giuseppe Mazzini

Il Monti, però, non ebbe una tomba e le sue ceneri andarono disperse. Concludiamo non dimenticando la famosa quartina che Manzoni scrisse dopo la morte del Poeta:

 

Alessandro Manzoni (F. Hayez)

Salve, o divino, a cui largì natura

Il cor di Dante e del suo duca il canto!

Questo fia il grido dell’età futura;

Ma l’età che fu tua te ‘l dice in pianto.