di Fabio Pagani
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Sant'Apollinare |
Un blog, una pagina nella quale scrivere di ciò che ti piace e che ti appassiona. Per interagire con me, proponendo temi di riflessione e articoli, scrivi a fabioprof81@gmail.com
di Fabio Pagani
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Sant'Apollinare |
Uno scrigno
antropologico nel golfo delle Andamane
Un nuovo ingresso nella nostra redazione: si tratta di Francesco Costa, insegnante di scuola materna e studente universitario, nonché esperto di biologia marina e di tutto quel che riguarda la natura. Francesco ci regala un bell'articolo sulla North Sentinel Island, posto unico al mondo nel quale vive ancora una tribù di indigeni. Di veri indigeni, che non hanno mai avuto contatti con la civiltà. Leggendo l'articolo, capiremo come il governo indiano e le autorità stiano gestendo questo importante patrimonio dell'umanità.
In fondo alla pagina, una breve biobibliografia dell'autore. Benvenuto, Francesco!
di Francesco Costa
Nel 2025 la società umana ha
ormai raggiunto un elevato livello di sviluppo nei continenti ed in tutte le
terre: l’essere umano ha costruito società moderne ed efficienti, ormai simili
in tutto il mondo.
Il processo di globalizzazione ha
accomunato i popoli della terra tramite tratti simili e risulta oggi difficile
pensare ad una società primitiva, quando ancora l’uomo non conosceva la scienza
e la tecnologia. Sembra impossibile che al giorno d’oggi esistano ancora
persone che non conoscono internet, le automobili o la radio, eppure questi
individui ci sono, anche se in numero esiguo.
C’è un’isola situata nel golfo
del Bengala all’interno dell’arcipelago delle Andamane, denominata North
Sentinel Island, non troppo distante dall’India, che nasconde un interessante
segreto antropologico; in questo luogo infatti abita una tribù di indigeni, che
non ha mai avuto alcun contatto prolungato con il mondo esterno per migliaia di
anni, preservando una struttura sociale, organizzativa e tecnologica primitiva,
simile a quella dei nostri antenati, vissuti migliaia di anni fa.
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Una veduta dall'alto di Sentinel Island |
Si ipotizza che sull’isola
abitino dalle 50 alle 500 persone, ma la stima non è certa; inoltre la
popolazione nativa non può essere certamente censita, in quanto si dimostra
estremamente aggressiva nei confronti di qualunque visitatore esterno che si
appresti a sbarcare sull’isola. Tramite l’utilizzo di armi come archi, frecce e
rudimentali giavellotti, la popolazione locale aggredisce qualunque barca o
velivolo che si avvicini troppo all’isola, dimostrando di non volere alcun
contatto con il mondo esterno.
Soltanto durante alcune rare
missioni governative e scientifiche si è potuto osservare, anche se da una
certa distanza, la popolazione locale, che appare comunque belligerante e poco
accomodante.
Si ipotizza che questo popolo
abiti l’isola da circa 60.000 anni e, non avendo avuto praticamente nessun
contatto con il mondo esterno, preservi gli usi e costumi della vita tribale, rappresentando
uno scrigno antropologico di conoscenza sulla condotta ancestrale dell’uomo e
sulla sua origine.
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Foto originale degli indigeni dell'isola |
Attualmente l’amministrazione
delle Andamane ha dichiarato di non voler interferire in nessun modo con la
vita degli abitanti dell’isola, i Sentinelesi, e di non tentare alcun contatto
con loro, impedendo alle navi ed ai velivoli di sostare sull’isola e vietando
gli sbarchi sul territorio, al fine di tutelare la tribù ed il suo delicato
stile di vita.
In passato non sono mancati
incidenti di curiosi che hanno deciso di violare il divieto ed avventurarsi
sull’isola: tutti costoro non sono mai tornati indietro e sono stati uccisi dai
locali; anche per questo il governo dell’India ha dato direttive alle proprie
navi di non avvicinarsi per nessun motivo all’isola e di non cercare contatto
con i Sentinelesi, al fine di tutelare loro e i marinai Indiani.
In un mondo cosi avanzato come il nostro, dove la velocità e la tecnologia la fanno ormai da padroni, esistono ancora rarissimi luoghi di lentezza, dove il tempo sembra essersi fermato, dove i saperi ancestrali ed antichi dell’uomo dominano ancora la realtà, uno di questi è proprio North Sentinel Island, dove un piccolo popolo vive ancora in modo naturale, ignorando la modernità e lo sviluppo del ventunesimo secolo, rappresentando una perla rara per la collana della storia umana, perla, che sarà nostro compito preservare per i prossimi millenni.
Francesco Costa (2000) è
un giovane poliedrico che coltiva moltissimi interessi: dai viaggi alla
biologia marina fino alle piante e a tutto ciò che riguarda la natura.
Laureato
alla triennale di Scienze dell’Educazione, lavora da tempo come insegnante
nella scuola materna, in attesa di conseguire l’alloro per la specializzazione
che gli consentirà di esercitare anche nella scuola primaria. Collabora con l’Università
per Adulti di Alfonsine e fa parte della Whale Watch Liguria, con cui
realizza escursioni marittime nel “Santuario dei cetacei”. Ha alle spalle una
pubblicazione dal titolo “I miei 10 anni tra le balene” (autoprodotto).
di Fabio Pagani
L’8 luglio di 35 anni fa si
chiudevano i mondiali di calcio di Italia ’90. Molto più di una semplice
manifestazione sportiva.
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"Ciao", la mascotte dei mondiali |
Quella sera, allo stadio “Olimpico”
di Roma, scesero in campo Argentina e Germania in una finale che, noi italiani,
avremmo dovuto e voluto disputare: ci furono fatali i calci di rigore nella
semifinale contro i sudamericani, giocata a Napoli, nel regno di Maradona. Il
mondiale lo vinsero i tedeschi, destinati a vendicarci battendo la nazionale
albiceleste con un tiro dagli undici metri trasformato dal compianto Andreas Brehme.
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Maradona e Matthäus, capitani di Argentina e Germania nella finale |
Quella coppa del mondo rappresentava la chiusura del cerchio di un decennio, quello degli anni ’80, che per l’Italia voleva dire benessere, denaro, opulenza: uscito dagli “anni di piombo”, il Paese rinacque, pur portando dentro di sé le proprie naturali contraddizioni; in politica vi fu il primo governo socialista della storia repubblicana, il mondo della comunicazione venne travolto dal fenomeno delle televisioni private di Berlusconi, l’imprenditoria vide la vertiginosa ascesa dei cosiddetti “yuppies”, giovani professionisti molto attenti al proprio aspetto esteriore e dediti alla bella vita.
La stessa RAI, il 5 giugno del
1990, inaugurò i nuovissimi studi di Saxa Rubra e mise in campo – è proprio il
caso di dirlo – un sistema avveniristico per riprendere tutte le partite del
mondiale e ciò che ne faceva da contorno.
Nei mesi precedenti la
manifestazione, furono costruiti e rinnovati gli stadi: ex novo, il “Delle Alpi”
di Torino ed il “San Nicola” di Bari, vere e proprie cattedrali nel deserto mai
decollate; la spesa complessiva per l’edificazione degli impianti fu di circa
1250 miliardi di lire (rispetto ai 250 miliardi preventivati…) e toccò gli oltre
7 miliardi considerando tutte le opere pubbliche nate ad hoc.
Gli effetti di questo spreco si
sarebbero palesati per oltre 25 anni sulle casse dello Stato; quello che,
invece, a breve sarebbe accaduto al Paese lo sappiamo tutti: l’illusione di Italia ’90 tramontava in campo con il rigore parato da Goycochea ad
Aldo Serena, sugli scranni della politica con lo scandalo denominato “Tangentopoli”,
con cui si sarebbe chiusa l’epoca dei partiti della cosiddetta “prima
Repubblica” e di quel benessere di superficie di fine anni ’80.
Ma a noi, che nell’estate del 1990 avevamo 8 anni, restano impresse le emozioni del primo mondiale della nostra vita, del clima elettrico che si respirava e di quella voglia di sognare che l’andare del tempo fatalmente sbiadisce. E poco importa se non abbiamo vinto.
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Il compianto "Totò" Schillaci, eroe delle "Notti Magiche" |
di Fabio Pagani
Nel 25esimo anniversario della
scomparsa dello scrittore Giorgio Bassani, abbiamo deciso di andare alla
scoperta dei luoghi più significativi della città di Ferrara, dove egli è nato
e dove ha ambientato gran parte delle proprie storie. L’occasione ci viene
offerta dalla visita dei nostri amici reggiani: già, proprio loro! Ricordate
che li avevamo portati in giro per Ravenna, più o meno poco dopo Natale?
In una calda giornata di giugno, ci troviamo in Corso Ercole I d’Este, le cui mura, ai lati della strada, ricorrono spesso nel film “Il giardino dei Finzi Contini”, di Vittorio De Sica, tratto dall’omonimo romanzo di Bassani. Nella pellicola, che racconta la storia di questa nobile famiglia ebrea di Ferrara, in cui la bella Micol è corteggiata dall’amico d’infanzia Giorgio, si vedono i due giovani, insieme ad altri amici, varcare il portone che separa il corso dal meraviglioso parco interno della villa; Bassani, nel romanzo, non indica volutamente i luoghi precisi della città in cui ambienta la storia, ma li lascia immaginare al lettore.
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L'ingresso del parco di Corso Ercole I d'Este |
Il parco, in effetti, c’è ed è il giardino pubblico Massari, che però non assomiglia per niente a quello del film! De Sica ha scelto l’orto botanico di Roma per girare le scene in cui gli amici di Micol giocano a tennis nel grande polmone verde della villa Finzi Contini, mentre la dimora individuata per le riprese degli interni si trova in Brianza. Realtà (i Finzi Contini non sono mai esistiti, ma vengono con certezza identificati nella famiglia Magrini, vittima delle leggi razziali), finzione e fantasia si mescolano magicamente, dando vita e corpo ad un romanzo e al relativo film fra le creazioni più belle di sempre.
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Micol, Giorgio e i loro amici nel grande giardino |
La penna di Bassani (ebreo e, per questo, sepolto nel cimitero ebraico di Ferrara) scorre fluida anche in un’altra opera, “Le cinque storie ferraresi”: fra queste, menzioniamo “Una notte del ‘43”, che richiama un fatto vero, vale a dire l’uccisione del federale fascista Ghisellini, rivisitato in chiave narrativa e intrecciato alla vicenda privata di Pino Barilari, farmacista reso invalido dalla malattia, che passa giorno e notte alla finestra sopra la farmacia di sua proprietà, affacciata su Largo Castello, di fronte alla rocca estense.
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Anna e, alla finestra, il marito Barilari |
Proprio lì, il 15 dicembre 1943 (la data è posticipata di un mese rispetto alla vera storia), undici antifascisti sono fucilati come capro espiatorio per l’assassinio del federale Bolognesi, freddato in realtà dai sicari di Carlo Aretusi, detto “Sciagura”, che ne avrebbe preso il posto. Una notte di sangue, registrata dagli occhi di Barilari, mentre la sua bella e giovane moglie, Anna, si trovava a casa di Franco, l’amante, figlio dell’avvocato Villani, trucidato nell’esecuzione di Largo Castello. Il film, girato nel 1960 come opera prima di Florestano Vancini, è ancora oggi bellissimo e ci regala scorci e luoghi veri di Ferrara, riportati fedelmente sia nel racconto di Bassani che nella pellicola. L’immortalità de “Il giardino dei Finzi Contini” e de “La lunga notte del ‘43” la dobbiamo anche ai grandi attori che ne sono stati protagonisti: Dominique Sanda (Micol), Lino Capolicchio (Giorgio), Giampiero Malnate (Fabio Testi) e Romolo Valli (padre di Giorgio) per il primo film; Enrico Maria Salerno (Pino Barilari), Gino Cervi (Carlo Aretusi), Gabriele Ferzetti (Franco Villani) e Belinda Lee (Anna) per il secondo.
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Gino Cervi ("Sciagura") e Enrico Maria Salerno (Barilari) |
Terminata questa emozionante pagina letteraria e cinematografica, una buona pausa ristoratrice a base di cappellacci ferraresi ha intervallato mattina e pomeriggio, nel quale abbiamo percorso le vie del ghetto ebraico, via delle Volte e via Vignatagliata per concludere in bellezza visitando il Castello Estense: le sue antiche prigioni, con gli umidi e stretti cunicoli, ma anche gli immensi e raffinati saloni, sembrano ancora dare voce all’epoca d’oro di una delle casate più prestigiose della storia.
Vi lasciamo con i minuti finali del film "La lunga notte del '43", in cui Aretusi incontra, dopo tanti anni, Franco, salutandolo come un vecchio e caro amico. Sappiamo che, in realtà, l'ex federale fascista fu responsabile della morte del padre di Franco che, però, dimostra di esserne completamente all'oscuro...
Scena finale del film "La lunga notte del '43"
di Fabio Pagani
Qualche sera fa mi è capitato di
assistere allo spettacolo teatrale La Ligaza di Trentasì, liberamente
ispirato alle vicende di briganti che, a cavallo dell’800, hanno tormentato la
Romagna. Malfattori, delinquenti che, per qualche bizzarro motivo, sono diventati
il simbolo di una terra ribollente di ideali anarchici e ribelli (vedi Stefano
Pelloni, detto Il Passator Cortese).
La Ligaza di Trentasì,
magistralmente diretta dalla regista Giulia Torelli, mi ha fatto venire in
mente un bel libro che ho letto alcune settimane fa e che ho avuto il piacere
di presentare insieme al suo autore: si tratta de Il gradino di terra,
scritto da Agide Vandini, e contenuto nella trilogia Romagna Ardente.
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Copertina de "Il gradino di terra" |
Vandini vive a Filo di Alfonsine
e da molti anni si dedica alle vicende del territorio e del mondo popolare; è
curatore del blog L’irôla de’ Filés, nel quale pubblica racconti, ricerche e
approfondimenti sulla Romagna e non solo. È nipote di Agida Cavalli, a cui deve
il proprio nome, eroina della Resistenza di Filo trucidata dai fascisti 80 anni
fa.
Il gradino di terra contiene le
avventure di Sante e Michele, due fratellastri figli di scariolanti e
contadini, che affrontano in maniera opposta un mondo dominato da ingiustizie e
disparità sociali: il primo, abbraccia la vita agreste, mentre il secondo si
dedica al brigantaggio e, fra realtà e fantasia, può identificarsi con il
“Falcone”, uno dei banditi più celebri del tempo. La storia è incardinata in
una cornica storica, che prende corpo dalla descrizione della situazione del Po
di Primaro a fine ‘700, la cui rottura a seguito dell’alluvione del 1756 maturò
la realizzazione di imponenti drizzagni, documentati nel libro da mappe e
riferimenti grafici che arricchiscono la narrazione. Nel romanzo, grande
rilievo viene dato al sacco di Lugo del 1796: “Oltre all’epopea degli
scariolanti vissuta dai protagonisti, l’evento più importante negli anni a
cavallo del secolo (1780-1821) è senza dubbio la calata dei francesi in Romagna
con le tragiche conseguenze che travolgono la città di Lugo”, sottolinea
Vandini. Le truppe napoleoniche, infatti, fra il 23 giugno e il 6 luglio del
1796, nonostante la fiera opposizione della popolazione lughese riuscirono ad
avere la meglio, saccheggiando e depredando tutto, compreso il busto di
Sant’Illaro, che venne portato via.
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L'autore, Agide Vandini |
Fra rigore storico e invenzione narrativa,
Vandini ha dato vita ad un’opera accattivante e densa di avvenimenti e colpi di
scena: “Reale e documentato – specifica l’autore – è il riassetto delle acque
romagnole descritto nel prologo, così come il già citato sacco di Lugo, di cui
ho cercato di riportare un sunto fedele; quanto ai personaggi, ho preferito in
alcuni casi distorcerne il cognome, date le non sempre edificanti attribuzioni
romanzesche”.
di Fabio Pagani
In questi giorni tutto il mondo
ha i fari puntati sulla Città del Vaticano, dove lo scorso 26 aprile sono stati
officiati i funerali di Papa Francesco. Un momento storico, molto sentito dai
fedeli, che va rispettato.
Ciò che più ci intriga, in un
certo senso, è quello che succederà a seguire: dopo i nove giorni di lutto,
stabiliti per protocollo quando muore un pontefice, dal 7 maggio ha preso il
via il conclave che, come abbiamo avuto modo di raccontare nella nostra
breve clip, affonda le radici nel Medioevo, quando i cardinali iniziarono a
rinchiudersi a chiave (cum clave, appunto), nelle segrete stanze della curia
romana per eleggere il nuovo Vescovo di Roma.
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L'ultimo Conclave (2013) |
Nei secoli, questa “prassi” è
stata spesso etichettata in modo critico, a tratti anacronistico, sicuramente
colorito e folcloristico.
Ma andiamo con ordine e partiamo
dall’accezione pratica dell’espressione conclave: anticamente era raro
che vi fossero porte dotate di serratura e, quelle che ne disponevano, chiudevano
stanze o edifici di particolare importanza. Per esempio, il diritto romano era
molto severo verso chi rubasse o falsificasse la chiave della cella vinaria,
dove veniva conservato il vino.
In ambito ecclesiastico, la prima
volta in cui viene utilizzato il termine conclave risale al 1216, quando
viene eletto Papa Onorio III; in realtà – e questa è una chicca – il
“battesimo” del conclave fu un altro: siamo nel 1268, anno in cui muore
il Pontefice Clemente IV. A quel tempo, la sede papale era a Viterbo, detta
“città dei Papi” perché fu scelta da Alessandro IV per allontanare la chiesa
dal clima ostile che c’era a Roma, e lì iniziarono a riunirsi i cardinali per
l'elezione del successore al soglio di Pietro. Quel conclave durò
addirittura tre anni! Questo perché gli interessi – politici ed economici – in
gioco erano altissimi; visto che i porporati non riuscivano a mettersi
d’accordo, i cittadini di Viterbo presero in mano la situazione e chiusero a
chiave gli elettori in una sala del Palazzo dei Papi, razionando loro il cibo e
lasciandoli al freddo. Insomma, queste condizioni spinsero i religiosi a darsi
una mossa e ad eleggere Papa Gregorio X.
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Il film "Conclave", di E. Berger (2024) |
Dicevamo che il conclave
non è sfuggito agli strali delle penne più pungenti e anticlericali dei poeti,
in particolare di Olindo Guerrini, fiero avversario della chiesa e dei suoi
potenti. Chiudiamo con uno dei sonetti che il Guerrini dedica al mondo
religioso della curia romana, intitolato “Conclave”: ecco cosa fanno i
cardinali mentre dovrebbero impegnarsi nelle loro alte vicende:
E’ Cunclev, Pulinera,
eccol iqué / E’ corr a Roma stanta vis d’e’ cazz
Is sera in Vatican
cun e’ cadnazz / E i magna com i ludar tott i dé.
Dop is grata la
panza, i to e’ cafè / E in t’ la sela piò granda d’e’ palazz
Is radona a vutè pr’
e’ piò cazazz / E l’è par quest ch’in vota mai par mè.
E intant ch’i vota i
da d’intendar ch’i ha / E’ su Spiritusant ch’e’va e ch’e’ven
E ch’ui insegna al
purcarì ch’i fa.
Puvar Spiritusant!
Sui passa vsen / Vut ch’at e’dega mè quel ch’ui dirà?
“Azident che possa da
scapen…!”
Il Conclave,
Apollinare, eccolo qui / Corrono a Roma settanta teste di cazzo
Si chiudono in
Vaticano con il catenaccio / E mangiano come otri tutti i giorni.
Dopo si grattano la
pancia, prendono il caffè / E nella sala più grande del palazzo
Si radunano a votare
per il più cazzaccio / Ed è per questo che non votano mai per me.
E intanto che votano
danno a intendere che hanno / Il loro Spirito Santo che va e che viene
E che insegna loro le
porcherie che fanno.
Povero Spirito Santo!
Se passa loro vicino / Vuoi che te lo dica quello che dirà?
“Accidenti, che puzza
di calzini sudici…!”
Fonti:
O. Guerrini, Sonetti romagnoli, Zanichelli, Bologna,
1957.
O. Guerrini, Sonetti romagnoli. Edizione e commento a
cura di Renzo Cremante con traduzione di Giuseppe Bellosi, Longo Editore,
Ravenna, 2021.
Pubblichiamo l'interessante approfondimento su un tema poco noto ai più: il genocidio armeno. Il 24 aprile 1915, infatti, iniziò la più grande dispersione di questo popolo che, da quel giorno, fu costretto a vagare in tante parti del mondo, Italia compresa.
Ma la storia inizia molto prima, vale a dire nell'Alto Medioevo, quando anche Ravenna fu governata da politici, i cosiddetti "esarchi", di origine armena...
Ringraziamo per questo contributo Gabriele Giovannini, giovane studente laureando in Storia medievale e appassionato della cultura dell'Armenia. 24enne di Massa Lombarda, Gabriele è entrato a far parte della squadra dei nostri collaboratori e lo fa con un approfondimento davvero pregevole.
Buona lettura!
di Gabriele Giovannini
La
formazione di una presenza armena in Italia si fa generalmente risalire al
1915, data che segna l’inizio del genocidio armeno e della grande diaspora di
cui è stato protagonista questo popolo. I tragici eventi intercorsi tra il 1915
e il 1923 hanno provocato una dispersione forzata degli armeni verso altri
territori e sono stati cruciali nella creazione di molteplici e consistenti comunità
nei più disparati angoli del mondo. Volgendo lo sguardo più indietro nel tempo,
tuttavia, si può notare come il popolo armeno sia sempre stato contraddistinto
da una grande mobilità. Ci sono nazioni, infatti, in cui la presenza armena è
documentata fin da secoli ben precedenti al Novecento. Come testimoniano le
fonti, dall’ XI secolo in poi abbiamo notizia dell’esistenza di vere e proprie colonie
nel Vicino Oriente, ma anche in Europa e, con l’avvento della modernità, si
attesta la presenza di insediamenti persino in India e nell’Estremo Oriente.
Per
quanto riguarda l’Italia che, insieme a Francia e Spagna, figura tra le
principali destinazioni europee, il primo significativo passaggio di genti
armene risale all’alto medioevo. Nelle sue immediate manifestazioni non si
tratta di un fenomeno omogeneo e continuativo e, stando alle fonti, i primi
contatti sono documentati, in realtà, già in età imperiale. Tra queste
interazioni è emblematica la visita a Roma del re armeno Tiridate I (Trdat
in armeno) della dinastia arsacide, su invito dell’imperatore Nerone. Questo
evento rimane, tuttavia, molto diverso rispetto al fenomeno che andrà
diffondendosi nei secoli successivi. I contatti, infatti, si intensificano
decisamente solo a partire dalla guerra greco-gotica (535-553), che porterà al
rientro della Prefettura d’Italia sotto il dominio romano-orientale e,
nell’ultimo ventennio del VI secolo, alla creazione dell’esarcato con capitale
Ravenna. Il primo a reggere la città fu proprio un generale bizantino di
origine armena, Narsete (Nerses), che era sbarcato in Italia per
sconfiggere gli Ostrogoti e completare l’opera iniziata nel 535 da Belisario.
Meno conosciuto di Narsete è invece l’esarca Isaacio, del quale ci lasciano testimonianza – in aggiunta alle fonti letterarie – il suo sarcofago e la relativa epigrafe. Questo monumento funebre marmoreo è oggi conservato presso la Basilica di San Vitale a Ravenna ed è quello meglio conservato tra gli esemplari dello stesso periodo.
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Il sarcofago di Isaacio in San Vitale (Ravenna) |
Il visitatore che non ne conosca già la storia
è difficile che vi si soffermi durante la visita dello splendido sito musivo,
ma si tratta sicuramente di un elemento poco noto e interessante da conoscere.
L’epigrafe in greco presente sul sargofago di Isaacio, caduto nella battaglia
dello Scultenna contro l’esercito del re longobardo Rotari (643), ci permette
di conoscere meglio questa figura. L’iscrizione, infatti, si connota come una
fonte di grande importanza per la ricostruzione di alcuni tratti biografici
dell’esarca e, più in generale, sull’importanza dell’elemento armeno
all’interno del contesto bizantino. La traduzione letterale mette in luce i
tratti distintivi del personaggio:
1. Qui giace colui che fu
valorosamente stratego custodendo inviolati Roma ed il Ponente
2. per tre volte sei anni
ai sereni signori, Isaacio, l’alleato degli imperatori,
3. il grande ornamento di
tutta l’Armenia; costui era infatti armeno e di nobile stirpe.
4. Essendo morto
gloriosamente, la casta moglie Susanna, alla maniera di una venerabile tortora
5. geme incessantemente,
essendo stata privata del marito, un uomo che ottenne fama dalle fatiche
6. nel Levante e nel
Ponente; comandò infatti l’esercito di Ponente e d’Oriente.
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Il testo greco dell'epigrafe sul coperchio del sarcofago |
È
importante aggiungere che, in virtù delle parole e dei titoli con cui viene
appellato, è stato possibile ipotizzare che Isaacio fosse un nakharar,
il principe (in italiano il termine armeno può essere tradotto anche “signore”)
di una delle più potenti famiglie armene del tempo, quella dei Kamsarakan. E la
sua appartenenza alla nobiltà armena potrebbe trovare conferma anche nel fatto
che l’esarca fosse sposato con una donna, Susanna, che sembra essere
imparentata con la potente casa dei Mamikonean. Famiglia, questa, che aveva
dato i natali a Vardan Mamikonean, ricordato per aver guidato gli armeni contro
i Sasanidi nella tragica battaglia di Avarayr (451) che, nonostante si tradusse
in una sconfitta, garantì poi agli armeni che vivevano all’interno del dominio
persiano di poter professare liberamente il cristianesimo. La presenza tra gli
alti ranghi dell’esercito bizantino di strateghi e comandanti armeni è
facilmente comprensibile se si considera l’importanza che la cavalleria armena
ebbe in ambito bizantino fin dalle campagne di Giustiniano, che vi fece ampio
ricorso non solo in Italia ma anche contro le popolazioni slave nella penisola
balcanica. L’Armenia, di fatto, fu il principale bacino di reclutamento dal
quale attingere per alimentare i ranghi della cavalleria romana. A Ravenna
questo si tradusse non solo nella presenza di esarchi di origine armena, ma
anche nella permanenza di un numerus Armenorum, un contingente armeno, nella
zona di Classe. Con la fine dell’Esercato, caduto per mano longobarda, i
contatti tra l’Italia e gli armeni sembrano diminuire e bisognerà attendere il
X secolo per tornare ad avere notizia di qualche presenza su suolo italiano.
Presenza che, da quel secolo in poi, sarà sempre più rappresentata da monaci,
pellegrini e mercanti. Alcuni di loro potrebbero essere stati assimilati dal
tessuto sociale locale fino a far perdere le tracce delle proprie origini,
mentre in altri casi, come quello degli Sceriman (o Scerimanian) a Venezia, la
loro provenienza è rimasta chiaramente documentata.
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Dettaglio laterale della tomba di Isaacio |
È
evidente che, sebbene la diaspora del secolo scorso abbia cause e dimensioni
peculiari, quello armeno è un popolo che ha sempre dimostrato di avere una
grande capacità di spostarsi e inserirsi in nuovi contesti culturali, arrivando
a creare vere e proprie colonie. Il caso di Ravenna rappresenta la prima
permanenza continuativa degli armeni sulla Penisola, una presenza che nei
secoli successi si intensificherà in città come Roma, Milano, Trieste, Padova e
la sopracitata Venezia.
Fonti:
Rossi, G. Storie Ravennati, Traduzione di Pierpaoli, M. 1996
Fiori, F. Epigrafi greche dell’Italia Bizantina (VII-XI secolo). 2008
Uluhogian, G. Gli armeni. Bologna. 2015
Aslanian, S. On the boundaries of History: The Armenian Diaspora of the Early Modern Period. 2020
L'autore
Gabriele Giovannini, 24 anni, di Massa Lombarda. Studente di Storia medievale presso l'Università di Bologna, coltiva la passione per la cultura armena. Con questo articolo d'esordio, entra a far parte della nostra squadra di collaboratori. Benvenuto, Gabriele!
di Fabio Pagani
Oggi torniamo ad occuparci delle realtà imprenditoriali del territorio e l'occasione ci viene data dall'imminente - e attesissima - visita a Ravenna di Carlo e Camilla d'Inghilterra. Abbiamo approfittato di questo unicum per intervistare Sandra D'Orazio, titolare del negozio "Salvagente Outlet 2", ubicato in via Boccaccio 10 (in pieno centro) e quindi interessata all'arrivo del Re e della Regina d'oltre Manica.
Sandra D’Orazio, imprenditrice ravennate titolare di “Salvagente Outlet 2”, negozio specializzato in taglie morbide per signore, dalla 44/46 alla 64/66, ci racconta l’attesa febbrile per l’arrivo dei reali di Inghilterra, che saranno a Ravenna giovedì 10 aprile. Per l’occasione, la vetrina del suo negozio godrà di uno speciale allestimento: “Quando sono venuta a conoscenza della visita di Carlo e Camilla – sottolinea Sandra - , esponenti di una delle monarchie più seguite a livello mediatico nel mondo, ho pensato, insieme alle mie collaboratrici e a mia sorella Silvia, professoressa di mosaico ed Interior Designer, a qualcosa di particolare: Silvia ha realizzato delle cornici in cartapesta, all’interno delle quali sono state collocate le fotografie di Camilla e Carlo, mentre io mi sono occupata dei vestiti. Che dire, siamo tutte molto in fermento ed emozionate per questo evento e siamo felici di avere creato una vetrina interattiva, mettendo in evidenza i nostri illustri ospiti, che danno pregio all’esposizione”.
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La vetrina allestita per Carlo e Camilla |
“Salvagente Outlet 2” vive da tempo in città. Ancora Sandra D’Orazio: “Ho aperto l’attività nel 2009 soprattutto perché quello curvy era l’unico mercato che aveva una bella fetta di visibilità. Ho anche la fortuna di essere circondata da amiche con taglie morbide, che si sono sempre prestate per fare le modelle nelle dirette social: in questo modo le clienti vedono i vestiti indossati dalle ragazze e si immedesimano in loro, nella loro fisicità e ciò avvicina molto la clientela, non solo ravennate, al prodotto”.
La passione per la moda non è una novità in casa D’Orazio: “Il mio percorso lavorativo è stato sempre nell’ambiente dell’abbigliamento, prima nelle taglie piccole e poi, come detto, in quelle morbide. Dal 2020, dopo la pandemia, abbiamo voluto riaprire il negozio con una spinta diversa, grazie anche al supporto di mia sorella Silvia: l’idea è stata quella di decorare il locale con pannelli che potessero attrarre le persone, investendo su allestimenti alternativi che spingessero i ravennati ad uscire di casa e a gustare la curiosità di entrare nel nostro negozio.
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Sandra D'Orazio di "Salvagente Outlet 2" |
Per fare un esempio, il primo quadro realizzato da Silvia è stata una rivisitazione dell’abbraccio di Klimt, prodotto con i pezzettini di stoffa ritagliati dai vestiti, a simboleggiare il ritrovarsi dopo il lungo periodo di isolamento; oppure altre creazioni in collaborazione con Linea Rosa, con cui continuiamo ad avere ottime sinergie e che supportiamo continuamente”.
“Salvagente Outlet 2” si trova nel centro di Ravenna, in via Boccaccio 10 (davanti al teatro Alighieri) e le sue proposte sono visibili anche sulla pagina Instagram del negozio (salvagenteoutlet2).
di Fabio
Pagani
Quante volte abbiamo sentito parlare degli “Anni di Piombo”? Nel mio caso, tante. Televisione, giornali, radio e cinema hanno spesso trattato questo argomento, che altro non è che una stagione della nostra vita, lontana nel tempo, ma ancora molto presente. E’ stata la regista tedesca Margareth Von Trotta, con il suo film “Anni di Piombo” (titolo originale: Die bleierne Zeit), uscito nel 1981, a coniare l’espressione. La pellicola narra la vicenda delle sorelle Ensslin, una delle quali, membra di un partito terroristico tedesco di estrema sinistra, viene trovata morta nella prigione di sicurezza di Stammheim nel 1977.
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La protesta operaia negli anni '70 |
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Il corpo di Aldo Moro ritrovato nella Renault 5 |
Fonti a
cui si è attinto nella redazione dell’articolo: www.focus.it; www.raistoria.it
di Fabio Pagani
Tutti sappiamo chi fosse Romolo, secondo la leggenda il fondatore
di Roma; parrebbe sua l’invenzione del calendario, nome che deriva dalle Calendae, ovvero i primi giorni del
mese. Agosto, ad esempio, non si è sempre chiamato così: in origine era Sextilis, il sesto. Ma il sesto di
cosa? Forse i Romani intendono dirci che si tratta di quello che oggi noi
chiamiamo Giugno? Qui c’è la sorpresa: Roma aveva istituito un calendario di
dieci mesi, che partiva da Marzo ed arrivava a Dicembre. Il Sextilis, quindi, era la sesta tappa di
questo tour reale, ma anche simbolico in quanto ogni nome si collegava a
precise divinità, festività e superstizioni. E’ Gaio Ottavio, che dal 43 a.C. si
chiamerà Ottaviano e dal 27 a.C. Ottaviano Augusto, primo Imperatore di Roma, a
stabilire che il sesto mese sarebbe diventato Augustus. Il 15, ovvero le Idi (circa metà mese, appunto) sarebbero
state dette Feriae Augusti, vale a
dire il giorno di riposo del Princeps
che includeva anche moltissime celebrazioni religiose.
Prima dell’avvento del figlio adottivo di Cesare, invece, il nostro ferragosto
era il momento in cui si celebravano i Vinalia Rustica, i raccolti e la
conclusione dei principali lavori agricoli. Con l’avvento del Cristianesimo e
della Chiesa cattolica la festa laica viene fatta coincidere con l’Assunzione
della Beata Vergine Maria (a partire dal XVI secolo), mentre pare che
l’abitudine italiana delle gite fuori porta, di cui si diceva all’inizio, sia
nata durante il Ventennio grazie all’istituzione di treni ferragostani, a
prezzo ridotto, per incentivare viaggi e, di conseguenza, consumi.
Ma torniamo al nostro calendario: i 10 mesi originari
diventano 12 con Numa Pompilio, il secondo Re di Roma, mentre è Giulio Cesare
ad istituire l’anno di 365 giorni e 6 ore. I 360 minuti in eccedenza
costituivano ogni quattro anni un giorno in più, che veniva aggiunto non al 28
febbraio, come ora, ma al 24, il Dies
Sextus prima delle calende di marzo. Di conseguenza il giorno successivo al
24 febbraio, aggiunto ogni quattro anni, prese il nome di Dies Bis Sextus, da cui derivò, e resta oggi, il nostro Bisextilis (bisestile).
E' papa Gregorio XIII, nel 1582, a consegnare al mondo il
calendario come lo conosciamo noi oggi.
E gli altri mesi? Vediamo di svelare qualche curiosità in
rapida sequenza.
Gennaio (da Ianus,
Giano, ovvero il custode della città).
Febbraio (Februa-orum,
cerimonie di purificazione).
Marzo (Mars, il
dio Marte, signore assoluto della guerra).
Aprile (da Aprilis/Aperire,
in riferimento all’apertura, allo sbocciare della primavera).
Maggio (Maius, da
Maia, dea della fecondità).
Giugno (Iuno, Giunone,
patrona del mondo femminile e custode del matrimonio).
Luglio (Iulius, in
onore di Giulio Cesare; in origine era Quintilis,
il quinto mese a partire da marzo).
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Cesaricidio, V. Camuccini (fonte: Wikipedia) |
Agosto (se siete stati attenti... lo sapete già!).
Settembre, Ottobre, Novembre e Dicembre (rispettivamente il
settimo, l’ottavo, il nono ed il decimo mese a partire da marzo).
Buon calendario a tutti!
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Il traghetto del passo dell'Anerina (1946) |
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Palazzo Tamba |
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Le scuole elementari del borgo |
di Fabio Pagani
Tutti sono a conoscenza delle “vicissitudini critiche” di Vincenzo Monti, vissuto in un periodo storico travagliato e segnato da eventi politici profondi, quali la Rivoluzione francese, la Repubblica Cispadana, l’avvento di Napoleone e la Restaurazione messa in atto dalla Santa Alleanza dopo il Congresso di Vienna. L’uomo Monti – secondo quanto si legge in molte storie della letteratura – si piegò a tutti gli avvenimenti divenendone di volta in volta il cantore ufficiale. Da iperboliche esaltazioni si passa a condanne assolute e profondo disprezzo, forse perché nel giudizio delle sue opere si fonde, quando non è dominante, quello della sua vita. Chi lo definisce poeta grande, chi lo dice arcade vuoto e perduto (vale a dire sordo, arido e superfluo rimatore di suoni inesistenti), chi lo celebra come Pater Patriae (Padre della Patria), chi, infine, lo qualifica come strimpellatore. Vediamo, in sintesi, alcuni dei giudizi più celebri sul poeta alfonsinese.
Ai nostri lettori, il diritto di formulare un'opinione libera e disinteressata.
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Vincenzo Monti (ritratto di A. Appiani) |
Ugo Foscolo ottenne
l’incarico (1800) di redigere le relazioni dell’Assemblea legislativa sul “Monitore
Italiano”, soppresso dopo pochi mesi. S’invaghì senza fortuna di Teresa Pikler,
moglie di Vincenzo Monti, e fu spinto persino ad un tentativo di
suicidio.
Partì per Bologna, forse
anche per sfuggire a quel ricordo, dove trovò impiego in tribunale, collaborò
al "Monitore Bolognese" e al "Genio Democratico", pubblicò un’opera di ampio
respiro: Ultime lettere di Jacopo Ortis.
Lo scontro con il Monti
avvenne per un malinteso, essendo stata erroneamente attribuita al Foscolo la
stroncatura di un poemetto didascalico di un poeta amico del Monti. Da lì
iniziarono battute a colpi di poemetti, satire, epigrammi. Eccone uno molto
tagliente del Foscolo:
Discenderemo entrambi nel sepolcro, voi
più lodato certamente, io forse più compianto; il vostro epitaffio sarà un
elogio; sul mio si leggerà che, nato e cresciuto fra tristi passioni, ho
serbato la mia penna vergine di menzogne.
E ancora il buon Ugo:
Il Foscolo scrisse
l’epigramma contro Vincenzo Monti, che nel 1810 pubblicò la traduzione
dell’Iliade (mentre il vecchio amico non era riuscito nell'impresa...), condotta in gran parte di seconda mano, utilizzando versioni
latine ed italiane.
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L'Iliade di Monti (1810) |
Il Monti si rifece,
mettendo in ridicolo la tragedia Aiace del
Foscolo, rappresentata con scarso successo a Milano l’anno dopo.
Il Monti ancora
Leopardi
… Ma tutto quello che spetta all’anima, al fuoco, all’affetto, all’impeto vero e profondo, sia sublime, sia massimamente tenero, gli manca affatto. Egli è un poeta veramente dell’orecchio, del cuore in nessun modo (Giacomo Leopardi).
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Giacomo Leopardi |
De Sanctis
… La natura
gli aveva largito le più alte qualità dell’artista: forza, grazia, affetto,
armonia, facilità e brio di produzione. Aggiungi la più consumata abilità
tecnica, un’assoluta padronanza della lingua e dell’elocuzione poetica. Ma
erano forze vuote, macchine potenti prive d’impulso. Mancava la serietà di un
contenuto profondamente meditato e sentito, mancava il carattere, che è
l’impulso morale. Pure i suoi lavori, soprattutto l’Iliade (N.B. la traduzione
del poema omerico da parte del Monti è, ancora oggi, considerata la versione
migliore. E pensate che Monti non conosceva il greco! Forse anche per questo,
Foscolo la definì “bella e infedele”), saranno sempre utili a studiarvi i
misteri dell’arte e le finezze della elocuzione (Francesco De Sanctis).
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Francesco De Sanctis |
Carducci
… Il Monti fu un ingegno più vario che non il Metastasio, più pronto e ricco che non il Parini, più facile e vivo che l’Alfieri; seppe rinnovare quel che di usuale e di utile restava nelle consuetudini dell’arte italiana; seppe attingere con discernimento e con gusto alle letterature straniere (…) Fu in somma il maggior poeta ecletticamente artistico che l’Italia da gran tempo avesse avuto
(Giosuè Carducci, vincitore del Nobel per la Letteratura nel 1906).
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Giosuè Carducci |
Mazzini
Beata la
nazione che al cader di un suo figlio degno dell’immortalità, può proferire il
detto dello Spartano: Io ho molti figli grandi com’egli fu. Beata la nazione
che onora gli illustri perduti con l’educare altri illustri sulle loro tombe (Giuseppe Mazzini).
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Giuseppe Mazzini |
Il Monti,
però, non ebbe una tomba e le sue ceneri andarono disperse. Concludiamo non dimenticando la famosa quartina che Manzoni scrisse dopo la morte del Poeta:
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Alessandro Manzoni (F. Hayez) |
Salve, o divino, a cui
largì natura
Il cor di Dante e del
suo duca il canto!
Questo fia il grido dell’età
futura;
Ma l’età che fu tua te
‘l dice in pianto.