giovedì 9 giugno 2016

Vincenzo Monti, uomo e poeta (Prima parte)

Cari amici lettori,
la scorsa volta abbiamo introdotto il tema del rapporto fra Neoclassicismo, ovvero il movimento che, nel '700, tende a recuperare il mondo classico nell'arte e nelle lettere, e Romanticismo, vale a dire la ricerca di istinti, impulsi, emozioni e senso patriottico (almeno per quanto riguarda l'Italia).
Cerchiamo, in questa sede, di procedere per gradi e con ordine, partendo dal maggior esponente del movimento neoclassico, Vincenzo Monti. Per farlo, abbiamo pensato di proporre una bella intervista da noi fatta al Professor Luca Frassineti, docente presso la Seconda Università di Napoli, già amico della nostra cittadina, oltre che persona con la quale ci lega un profondo rapporto di stima ed affetto.
Nelle righe che leggerete verrà evidenziato il Monti pubblico e privato: dal rapporto col Foscolo, al problema del matrimonio della figlia Costanza. Per chi volesse approfondire il tema, consigliamo il volume:
- Primo supplemento all'epistolario di Vincenzo Monti, di Luca Frassineti, ed. Cisalpino, 2012.

VINCENZO MONTI, PADRE E MARITO



A colloquio con il Prof. Luca Frassineti sulla sfera privata del poeta dell’Ortazzo


Abbiamo il piacere di ospitare un riprovato amico nostro e delle Alfonsine, Luca Frassineti, ora docente di Letteratura Italiana presso la Seconda Università degli Studi di Napoli, con il quale desideriamo affrontare il tema dei rapporti familiari di Monti, dalla vicenda sentimentale della figlia ai rapporti con la moglie. 

Caro Luca, cosa puoi raccontarci sulla storia del mancato connubio tra la sensibile Costanza e il giovane intellettuale neo-greco Andreas Mustoxìdi, liaison di appena due anni antecedente l’effettivo matrimonio (giugno 1812) con il più attempato filologo pesarese Giulio Perticari? 
Si tratta davvero di un capitolo esemplare nell’eterna dialettica umana e sociale fra istanze del cuore (dei figli) e interessi materiali (dei genitori), ieri così come ancora oggi. Con l’aggravante che, ai primi dell’Ottocento, in un mondo condizionato dalla prevalenza del cosiddetto sesso forte, lo status di figlia doveva costituire di per sé una complicazione nell’orizzonte del consolidamento delle fortune domestiche. Alle donne era infatti interdetta non solo la carriera delle professioni ma anche la piena disponibilità patrimoniale, come rileva l’istituto stesso della dote (abolito peraltro in Italia nel 1975!), cioè del complesso dei beni che la moglie, o i parenti di essa, recavano al marito quale contributo agli oneri del matrimonio. In cambio, con le nozze, la famiglia della sposa puntava in genere a ricavare vantaggi indiretti, legando il proprio nome a quello di un clan più prestigioso e per censo e per quarti di nobiltà. Sicché la letteratura dei secoli XVIII e XIX o ad essi ispirata è intrisa di progetti tragicamente falliti a causa della scarsa reputazione maschile, come nel noto caso di Jacopo Ortis, amante rifiutato dal padre della “divina” Teresa, il nobile-decaduto “signor T***”, il quale all’appassionato ma modesto borghese, alter ego del Foscolo, preferisce il più insignificante ma aristocratico Odoardo, “uomo di senno, ricco e in aspettativa di una eredità ragguardevole” (Ultime lettere, 20 novembre 1797).




Ovvero, in prospettiva affatto capovolta, nella seconda metà dell’Ottocento ‘trionfano’ le nozze celebrate da famiglie arricchite, di femmine ora in goduta caccia di nuova legittimità collettiva, come per la popolaresca Angelica Sedàra (pensiamo alla ‘vistosa’ interpretazione di Claudia Cardinale nel memorabile film diretto da Luchino Visconti), accasata a un rampollo dell’antica schiatta spagnolesca dei Falconeri nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Passando dalla finzione romanzesca alla ricostruzione biografica, nelle loro debite proporzioni i due infelici capitoli della storia coniugale di Costanza Monti



ventenne potranno senz’altro essere riletti in chiave ‘ortisiana’. Il primo, presto chiuso per l’ostilità irriducibile della madre e l’imprevisto voltafaccia del padre, racconta del vagheggiato incontro con il compagno d’elezione, Andreas Mustoxìdi, esule dalla madrepatria, già allievo di Monti a Pavia, allora in disagiate condizioni economiche ma virtuoso, sincero e affine alla giovane per età (li dividevano appena sette anni), sensibilità e stato sociale. Il secondo, condotto in porto con la calcolata complicità di entrambi i genitori, narra degli sponsali benedetti con un partito vantaggioso soprattutto per la famiglia, attesa l’indifferenza della futura sposa verso l’uomo di cultura non più giovanissimo (Giulio Perticari 




era quasi coetaneo di Foscolo, che pure ebbe per Costanza attenzioni esclusivamente filiali) né
seducente (l’aneddotica attribuisce all’erudito pesarese l’alito fetido di un sepolcro), il quale dovette addirittura nascondere una relazione ancillare e un figlio naturale, Andrea Ranzi, potendo però vantare lo stemma di conte e di ricco proprietario terriero. Donde la decisione ultima di Costanza, come già per l’eroina dell’Ortis, di obbedire alla volontà paterna, non avendo dalla sua neppure la debole opposizione materna, come avviene invece all’amante di Jacopo nell’intreccio foscoliano. 

Hai rammentato l’influenza delle volontà di Monti e della Pikler nei confronti della figlia e del suo avvenire, nel quadro dei loro delicati equilibri familiari. Come si conciliano le figure del poeta e dell’uomo di lettere con quelle del padre di famiglia e del marito? 
La questione è assai delicata, poiché all’inizio Monti appare il vero sponsor dell’unione con Mustoxìdi,



di cui non ignora le difficoltà economiche (anzi!), a differenza della moglie, dotata di spirito assai più pratico e opportunistico, la quale si dichiara sin da subito ostile all’azzardo di un genero borghese, onesto e squattrinato tanto quanto favorevole all’idea futura dell’aristocratico blasonato, vissuto e danaroso. Se, come insegnano i sociologi, nella modernità risulta cruciale il ruolo delle donne nel costruire e negoziare alleanze matrimoniali, dobbiamo ammettere che, prima d’accogliere le riserve della Pikler, nel corso del 1810 il poeta si spinse davvero molto innanzi con le promesse e con gli atti, sino a indurre, ad esempio, l’ex-allievo a rinunciare all’intenzione di accasarsi con una nobile compatriota rifugiata a Venezia, previo il conseguimento di una cattedra universitaria con cui elevarsi socialmente e mantenersi in autonomia. Per questo, alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi maliziosa che l’apertura di credito e di affetto verso il giovane neo-greco sia potuta derivare dalla volontà più o meno cosciente di cattivarsi un aiuto grato, esperto (in quanto madrelingua) e discreto nell’opera di rifinitura dell’impresa della colossale versione dell’Iliade di Omero, i cui tomi vennero appunto stampati fra l’aprile 1810 e il febbraio dell’anno successivo (la rottura matrimoniale con Mustoxìdi dovrebbe risalire all’avanzata primavera del 1811). Fu davvero così cinico Monti da illudere e poi disingannare i sentimenti profondi dell’unica figlia e di un giovane amico, in funzione del mero tornaconto letterario (come si sa, il ‘traduttor dei traduttori’ era affatto digiuno di greco)? Affido la risposta alle parole che egli stesso scrisse a Mustoxìdi il 26 febbraio 1810, nella prima lettera della loro corrispondenza – riemersa alla luce solo di recente – ove ritengo si alluda copertamente alla proposta di matrimonio con Costanza, di cui il padre finge ad arte i titoli ed esalta le virtù. Giudichi il lettore se una simile retorica epistolare convenga più a quella di un impulsivo arcangelo annunciatore oppure a quella di un astuto demonio tentatore: “Una fanciulla di 18 anni, unica figlia, bella di volto e più bella di cuore perché dotato di gran carattere, e di più, colta, di spirito, di molta abilità nella musica, e non senza profitto negli studj del Disegno, e che scrive italiano e francese divinamente, questa fanciulla può darsi che sia vostra se la volete. Ella ha ricusato finora molti partiti e tutti plausibili, ma la tempra del suo cuore, di cui il padre l’ha fatta libera liberissima, il cuore non avendo trovato nei proposti partiti il suo conto, gli ha rigettati tutti fermissimamente, altri perché forniti di poco sentimento, altri di poca saviezza e costume, ed altri per altro motivo. Il padre è vostro amico, quanto il son io, e vi stima a segno che dassi a credere che voi solo (finora) sareste quello che potrebbe fissare e contentare l’eccessiva, e quasi ideale delicatezza di sua figlia, che pur vorrebbe veder felice al fianco d’un compagno che sapesse conoscerne il prezzo ed amarla quanto ella merita. La sua condizione è onesta, e recentemente nobilitata, la dote quanto basta per vivere commodamente senza bisogno di vendersi a verun impiego, e il padre vi riceverebbe a braccia aperte in propria casa in Milano per fare con esso voi una sola e beata famiglia. Potrei aggiungere moltr’altre cose, ma basta per ora. […] La giovine che vi propongo non sa che esistete, ma io ho tutta l’influenza su l’animo di suo padre, e posso mettere in campo questo proggetto senza timore di esito sfortunato. Vi abbraccio di cuore, e sono sempre il Vostro Monti”.

Ad maiora!

mercoledì 25 maggio 2016

Classici o Romantici? Da quale parte stiamo?

Cari lettori, 

pochi giorni fa, passeggiando per le campagne alfonsinesi nella zona dell'Ortazzo (oggi Passetto), ho rivisto Casa Monti. Capirai... Quante volte mi è capitato! Ma, non so perchè, il vagare ramingo per i campi, riflettendo e respirando l'aria "antica", mi ha fatto venire voglia di affrontare una delle polemiche più aspre della nostra storia letteraria, vale a dire quella fra i sostenitori del mondo classico (tra cui anche il nostro Vincenzo Monti) e gli assertori del rinnovamento, dell'apertura alla, alle culture europee, ovvero i romantici. Forse non molti conoscono l'essenza del problema, per cui partiremo dalle basi: che cos'è il Romanticismo.
Il termine ha le sue origini nell’Inghilterra del’600 nella quale l’aggettivo romantic sta ad indicare qualcosa di fantastico e di assurdo; dunque il termine aveva valenza negativa, quasi spregiativa. Nel corso degli anni questa definizione viene sfumando fino a scomparire per significare qualcosa di affascinante, suggestivo e nostalgico. Il termine romanticismo è oggetto di dispute e interpretazioni tanto è vero che Friedrich Schlegel, uno dei massimi teorici del movimento, scrive scherzosamente al fratello:” Non ti posso mandare la mia interpretazione della parola romantico; essa è lunga centoventicinque (125) pagine”. Infatti da allora ad oggi i critici hanno elaborato ben 150 definizioni di Romanticismo. In seguito si è convenuto di indicare con questo termine stati d’animo e sensazioni indefinite, così cari a poeti come Leopardi, e nel contempo una rottura con la tradizione (iniziata, come già detto, intorno al 1770, con il movimento dello Sturm und Drang (Tempesta e Assalto).



Quindi una corrente culturale che ha il suo bersaglio nella corrente illuministica e nel classicismo;  ma la storia non sopporta le contraddizioni nette e schematiche. Come sempre, ciò che di vitale è stato di un movimento passa come conquista ineliminabile nella cultura che lo segue. Il concetto di libertà, che è una scoperta tipicamente illuminista, viene assorbito e rivivificato fai romantici; dunque esiste un’intima coerenza fra ‘700 ed ‘800. Scrive il massimo critico italiano, Francesco De Sanctis:



Che cosa fu dunque il movimento del secolo decimonono, sbolliti i primi furori di reazione? Fu lo stesso spirito del secolo decimoottavo, che dallo stato istintivo e spontaneo passava nello stadio della riflessione, e rettificava le posizioni, riduceva le esagerazioni, acquistava il senso della misura e della realtà, creava la scienza della rivoluzione. Fu lo spirito nuovo che giungeva alla coscienza di sé e prendeva il suo posto nella storia. Chateaubriand, Lamartine, Victor Hugo, Lamennais, Manzoni, Grossi, Pellico erano liberali non meno di Voltaire e Rousseau, di Alfieri e Foscolo. Sono anch’essi figli del secolo decimo settimo e decimoottavo, il loro programma è sempre la carta dell’Ottantanove, il credo è sempre libertà, patria, uguaglianza, diritti dell’uomo...Lo spirito nuovo accoglie in sé gli elementi vecchi, ma trasformandoli, assimilandoli a sé, e in quel lavoro trasforma anche se stesso, si realizza ancor più. Questo è il senso del grande movimento uscito dalla reazione del secolo decimonono, di una reazione mutata subito in conciliazione. La base teorica di questa conciliazione è un nuovo concetto della verità, rappresentata non come un assoluto immobile a priori, ma come un divenire ideale, cioè a dire secondo le leggi dell’intelligenza e dello spirito”.

Il Romanticismo infine è la rivalutazione degli ideali religiosi contro il deismo e l’ateismo degli illuministi, rivendicazione del sentimento contro, o meglio, accanto alla ragione: espressione della “restaurazione” post rivoluzionaria e, insieme, derivazione diretta, nei suoi appelli all’umanitarismo, alla libertà ed all’uguaglianza, della Rivoluzione francese.

Ad maiora!

martedì 17 maggio 2016

I nuovi aperitivi con un po' di musica!

APERITIVO ETIMOLOGICO

Nihil est tam mobile quam feminarum voluntas

Niente è tanto mobile quanto i voleri delle donne (Seneca, De remediis, XVI, 3).



Il tema della mutevolezza femminile è da sempre caro ai proverbi e alle sentenze d’autore. Per concetti analoghi vediamo anche il detto virgiliano “Varium et mutabile semper foemina” (La donna è una creatura sempre varia e mutevole, Eneide, IV, 569-70) e l’amara consapevolezza espressa da Catullo nel suo Liber: “Mulier cupido quod dicit amanti, in vento et rapida scribere oportet aqua (Ciò che una donna dice all’amante pieno di desiderio bisognerebbe scriverlo nel vento e nell’acqua corrente). Occhio, quindi, a non compiere passi falsi! Come ci ricorda Big Luciano Pavarotti in questa versione tratta dal Rigoletto di Giuseppe Verdi...





APERITIVO ETIMOLOGICO


Excusatio non petita, accusatio manifesta

Una scusa non richiesta è un'accusa manifesta (Proverbio)


Questo proverbio, di origine medievale, riprende una tradizione già diffusa nel mondo antico, secondo la quale l'eccessiva difesa di una causa fa apparire la colpevolezza di chi parla. Il proverbio esiste ancora oggi nelle moderne lingue europee.


APERITIVO ETIMOLOGICO


Ad interim

(In carica) provvisoriamente.


Si tratta di un avverbio, interim, che ha il valore di complemento di tempo (frattanto) e di una preposizione ad che indica il momento fino a cui si estende il tempo del quale si parla. Sia nel latino classico che in quello moderno si parla di carica ad interim quando chi la ricopre non ne è il definitivo incaricato, ma solo un sostituto che ne svolge le funzioni in via strettamente provvisoria. Per fare un esempio un Presidente della Repubblica ad interim può essere il Presidente del Senato quando il Presidente in carica sia ammalato, morto o destituito; inoltre esistono anche ministeri ad interim ricoperti dal Presidente del Consiglio quando si deve provvedere alla sostituzione di ministri dimissionari.



Ad maiora!

lunedì 2 maggio 2016

Metti una sera con Stecchetti... (Seconda parte)

La poesia in dialetto di Stecchetti è il simbolo di una Romagna che prende coscienza della propria posizione, con le sue masse che lottano e cercano di ribellarsi al potere dei più forti. Ma il vernacolo non è solo questo, naturalmente: esprime l’amore per la buona tavola, gli scherzi, le bestemmie, le volgarità. Il dialetto romagnolo è pratico e misurato, non è né voluttuoso né lirico. Stecchetti, nei suoi sonetti, spazia dai temi più seri a quelli maggiormente pungenti, come in “Diritto al lavoro”, in cui il poeta denuncia l’arroganza del padrone:

Un ved, e mi sgnor Cont, un ved incora
Ch’a i’ho tre creatur da sustintè?...
A set cus ch’um ha arspost…? Porco, lavora!

dalla descrizione del viaggio

BULOGNA
Al do Torr? San Petroni? Chi s’n’infott!
Nò a curessom ai Quattar Piligren
A magnè al parpadell cun e’ parsott.

alla forte vena anticlericale, come si può vedere nell’ultima terzina de “Pro eligendo Pontefice”.

L’ha al muroid? Mo dì pian ch’an sen za surd.
L’ha al muroid? Ui vo poch a fel guarì
Basta lavei e’cul cun l’acqua d’Lurd.

Il tutto è condito dalla presenza di personaggi tipici, archetipi assoluti di un modo di vivere, l’uno all’opposto dell’altro: si passa, infatti, da Tugnazz, uomo del popolo, bonario e mangiatore,

Mo paura Tugnazz? Porca paletta
Un è bon gnanc Enrico Barbarossa.
Paura lò? Tugnazz! Mo vat a fe…
Ma val a dé d’intendar a mi nona…

a Pulinèra, che impersona il ravennate classico, antico e conservatore: una notte egli si trovava dietro a un muro e stava facendo i suoi bisogni, quando all'improvviso gli apparve Dante…

E tott in t’una volta um salté fura
Un vigliacch d’un fantesma, un zizulon,
Cun una sbossla da caricatura
E una stanela rossa da strigon.
Che alora ai dess: “Vui fiol d’na sumara
Se venissi per farmi una figura
Cavati prima la galoza e impara”.
Ma lui rispose per leteratura:
“Calca, calca, propulsa, Polinara
Perché a ben dir lo vero è cosa dura”.

attraverso Dante, visto non come il grande poeta, ma come maschera romagnola che sta in un tempietto costruito dall’architetto ravennate Camillo Morigia, una “vera gloria romagnola”, come è ironicamente definito:

Morigia? vera gloria romagnola,
Che fu un patacca e mica un architetto
E pisciò sino sangue, poveretto,
Per fabbricarmi questa pivirola
E i ravegnani al lume delle stelle
Vengono poi dal Bugno e coll’orina
Annegano il canton de le Tavelle,
Indi mi allegran sino alla mattina
Voci alte e fioche e suon di cul con elle
Sepolcro un cazzo! Quella è una latrina.

Chiudiamo con il sonetto integrale dedicato a Papa Pio X; non c’è bisogno di alcun commento…

VIVA LA SU FAZZA!

Pio disum, quand ch'us elza la matena,
Us magna du panett cun e' furmai
E' to la su acquavita, e' to un vintai,
E' va in zarden fumend la caratena,
Us mett a l'ombra senza papalena
E un pezz e' lezz l'Avanti d' spara guai
Un pezz us god a corrar dri al parpai
E dal volt a sunè la garavlena,
Us botta in t' la spagnera a cul buson,
E' stend al gamb, e' sptona la butega
E pu e' dorum pinsend a la clazion.
Mè, sgond a mè, a direbb che ló us n'infrega,
Mo sgond a sti giurnel d'i mi coion
«Per ora il Papa osserva, pensa e prega».


Ad maiora!

giovedì 21 aprile 2016

Metti una sera con Stecchetti... (Prima parte)

Cari lettori, oggi pubblichiamo la prima parte dell’intervento da noi tenuto in occasione della bella iniziativa poetico-letteraria “Trebbo a Villanova”, tenutasi lo scorso 15 aprile. Si è disquisito di Grande Guerra, di Pasolini e, naturalmente di Stecchetti, di cui ci siamo indegnamente occupati!
Parlare di Olindo Guerrini, in Parnaso Lorenzo Stecchetti, può essere rischioso se ci si riduce soltanto alla produzione in vernacolo, ovvero ai Sonetti Romagnoli. In realtà il poeta di Sant’Alberto subisce molto abbondantemente l’influenza di Giosuè Carducci, all’epoca docente di Eloquenza presso l’Università di Bologna.




Guerrini, laureatosi in Legge, dimostra tuttavia una certa propensione alle belle lettere, condite sempre da quella verve polemica e disincantata che caratterizzerà tutta la sua produzione. Tra il 1877 ed il 1897 escono Postuma (il cui successo editoriale è superiore a quello delle celeberrime Odi Barbare del Carducci), Polemica (con oltre 50 riedizioni), Nuova Polemica e Argia Sbolenfi (titolo che fa riferimento ad una zitella che confessa le sue privazioni erotiche; nell’opera ricorre l’espressione “armiamoci e partite”, divenuta, poi, proverbiale), con cui il poeta acquista fama di polemista e scrittore di versi osceni. I Sonetti, invece, escono dopo la morte di Guerrini e precisamente nel 1920 grazie al figlio Guido. Negli anni sotto le due Torri Stecchetti sviluppa la passione per il giornalismo, fondando, tra gli altri, “Il Matto”, giornale patriottico ed anticlericale. 



Naturalmente la critica letteraria non è tenera, per usare un eufemismo, con Guerrini, considerato poeta violento, sboccato, indegno, accusato soprattutto dalla cultura ottocentesca, ancora legata al Romanticismo e a Manzoni. Questo è il pensiero di tanti, tra i quali spicca Benedetto Croce.
Stecchetti non è nulla di ciò, ma è scrittore di grande erudizione, eccellente latinista e capace di versi profondi, spesso ispirati al Realismo, ad una forma ironica di Verismo e, naturalmente, ai sentimenti.
Per comprendere meglio la grandezza del poeta vogliamo citarne alcune fonti, non riferendoci certo a rimatori di paese o a saltimbanchi dell’ultima ora.

Così Catullo, il cantore dell’amore per Lesbia, scrive nel suo epigramma:

“Odi et amo; quare id faciam, fortasse requiris:
nescio, sed fieri sentio et excrucior”.

Odio e amo; forse chiedi perché io faccia questo:
non lo so, ma sento che avviene e me ne addoloro.

Guerrini gli fa eco in questo modo (sonetto n. 77 di Postuma):

“Io t’odio ancora, ma sei troppo bella,
io t’odio ancora e non ti so scordar…
T’odio, ma torna e non fuggirmi più.

E ancora vediamo un raffronto fra l’undicesima ode del primo libro delle Odi di Orazio ed il sonetto n. 18 di Postuma:

“… Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero”.

Mentre parliamo fuggirà il tempo invidioso:carpe diem,
fidandoti il meno possibile del domani.

Guerrini:

“Io non voglio sapere quanto sei casta;
ci amammo veramente un’ora intera,
fummo felici quasi un giorno e basta!”.

Un altro grande maestro del Guerrini è Victor Hugo, faro del Romanticismo francese, poeta che abbraccia tutto il XIX secolo e ne riflette lotte, contrasti, speranze ed illusioni.

V. Hugo, Les Orientales et les feuilles d’automne:
“Enfant! Si j’étais roi, je donnerais l’empire
et mon char, et mon sceptre, et mon peuple à genoux”.

Fanciulla! Se io fossi re, ti donerei l’impero
E il mio cocchio trionfale, e il mio scettro, e il popolo alle tue ginocchia.

Guerrini (sonetto n.43 di Postuma):

“S’io fossi ricco, d’oro e di gioielli
ti vorrei ricoprir da capo a piede:
se fossi papa, per quest’occhi belli
in Vatican rinnegherei la fede:
si fossi imperator del mondo intero,
sol per un bacio tuo darei l’impero:
s’io fossi Dio, con me ti condurrei
ed in ginocchio in ciel t’adorerei”.




Guerrini utilizza l’italiano anche per lanciarsi in irriverenti parodie e per sprigionare il suo innato anticlericalismo (sentimento, quest’ultimo, naturale in una terra, la Romagna, che per troppo tempo subì i soprusi dello Stato pontificio).

Inferno, canto I
A mezzanotte un dì della mia vita
Mi ritrovai per una strada oscura
Piena di sassi e assai poco pulita.
Ahi quanto a camminar essa era dura
Questa strada selvaggia ed aspra e forte
Che a chi ha dei calli fa venir paura.

5 maggio, A. Manzoni
Ei fu. Siccome immobile
Un padre cappuccino
Guarda la goccia pendere
Dal naso al suo vicino
Così tranquilla e placida
La terra al nunzio sta.
E ripensò le splendide
Scene dei suoi piaceri
E il salto dei turaccioli
E il cozzo dei bicchieri
Lo sparecchiar sollecito
Il celere imbandir…

Commovente e drammatica allo stesso tempo è, infine, l’immagine dell’Italia, tema caro al poeta, umiliata da quelli che ingrassano comodamente e consolano le vedove mentre altri sacrificano la loro giovane vita:

“… E ora? I vostri figli a mille a mille
Cadder lungi da voi
Perché un ladro impazzito e un imbecille
Si son creduti eroi…”.

Potremmo continuare ancora per molto, ma non vogliamo tediarvi oltre! La prossima settimana sarà pubblicata la seconda parte dell’intervento, quella certamente più scanzonata e divertente, ma non priva di toni profondi e gravi.


Ad maiora!

mercoledì 13 aprile 2016

OLINDO GUERRINI E LA BICICLETTA

Oggi affrontiamo un aspetto della nostra cultura contadina di un tempo, ma anche dei giorni nostri e lo facciamo attraverso le parole, spesso pungenti e sicuramente genuinamente nostrane, di Olindo Guerrini. Il poeta di Sant’Alberto racconta le sue uscite in bicicletta insieme ai figli nella villa di Gaibana, dove amava trascorrere lunghi periodi di riposo. La bicicletta rappresenta una specie di mito in Romagna; è un po’ come la “caveja campanena”, il simbolo di questa nostra terra, piena di sentimenti e passioni. 



Di questo amore per la bicicletta da parte di Olindo Guerrini, noi troviamo espressione in molte parti delle sue poesie, soprattutto in quella che oggi appare la più schietta e genuina, i Sonetti Romagnoli. Come si sa, i Sonetti sono una prole senza padre in quanto non sono nati entro uno schema prefissato, predisposto dal poeta, ma sono battute che gli escono spontanee dalla penna e che delineano in modo scherzoso e serio allo stesso tempo i personaggi della Ravenna di fine ‘800. Di questa Ravenna ricordate tutti Tugnazz, cacciatore bestemmiatore amante del vino, quel Tugnazz del famoso sonetto “E prit dla Camarlona” in cui, credendo di sparare ad un uccello, il nostro personaggio colpì il di dietro del prete che stava accovacciato per fare i suoi bisogni. Un altro volto, più aristocratico, è quello di Pulinera – Apollinare in romagnolo – più colto e conservatore, mentre Tugnazz è progressista e partecipa attivamente e in modo intimo e passionale alle lotte dei lavoratori. Tornando alla bicicletta, essa è presente in molti sonetti che vanno sotto il nome de “E viaz”, dove il poeta compie la sua descrizione del giro d’Italia in bicicletta; sono famosi molti sonetti, per esempio “Modna” dove, arrivato in piazza del Duomo, il poeta scrive “essendo un cantico di laude a Dio, gli uccelli esultano, compreso il mio!”. 



Il tema della bicicletta compare anche in alcuni scritti in prosa, dove notiamo lo stile brioso, elegante, mai pedante di Olindo Guerrini. Vi consigliamo di leggere anche quest’opera, dalla quale emerge la figura di questo grande poeta, ricordato più per i sonetti che per gli altri componimenti, ma uomo profondamente erudito, letterato ed eccellente latinista. I Sonetti romagnoli sono una delle opere più vendute dalla casa editrice Zanichelli e questo dimostra l’attualità e la continua novità dell’anima di questa Romagna che, nonostante i secoli, continua a pulsare con lo stesso entusiasmo e la stessa passione.

Ad maiora!



mercoledì 23 marzo 2016

Il capello strappato

Poiché non periva per destino o per debita morte,
ma sventurata prima dell’ora, arsa da subitanea follia.
Proserpina non aveva ancora strappato dal capo
Il biondo capello, né assegnato la vita all’Orco stigio.

Questi versi, tratti dall’Eneide (IV, 696-699) ci fanno riflettere su un motivo piuttosto diffuso nelle culture antiche e collegato ad una credenza magica: il “capello strappato”.
Proviamo a capire meglio e a riflettere sul fatto che i capelli (beato chi li ha tutti, folti e belli… Pensiero personale) non siano soltanto un elemento di corredo del nostro capo, ma abbiano un valore antropologico, esistenziale, quasi mistico. Partiamo da Apollodoro, scrittore greco di miti, che narra un famoso episodio a proposito di Niso, re di Megara, e di sua figlia Scilla (III, 15, 8):

Minosse, che aveva il dominio del mare, armò una flotta contro Atene, conquistò Megara dove regnava Niso, figlio di Pandione, e uccise Megareo, figlio di Ippomene, che era venuto da Onchesto in aiuto di Niso. Ma anche Niso morì, tradito da sua figlia. Egli aveva infatti, in mezzo alla testa, un capello rosso, e un oracolo diceva che, se questo capello fosse stato strappato, sarebbe morto. Allora, sua figlia Scilla, che si era innamorata di Minosse, glielo strappò. Minosse, però, quando conquistò Megara, appese la fanciulla per i piedi alla prora di una nave e la fece morire annegata.



Secondo una versione del mito ben attestata a Roma, Scilla fu tramutata in cyris – un uccello acquatico, probabilmente una specie di airone – e Niso in aquila marina. A questa trasformazione fa riferimento anche Virgilio nelle Georgiche (I, 404-409):

Appare in alto nel limpido cielo Niso
e Scilla paga la pena per il purpureo capello;
dovunque ella fuggendo solchi l’etere lieve,
ecco, atroce nemico, con grande stridore la insegue
Niso per l’aria; e dove Niso s’innalza,
ella fuggendo rapida s’invola nel lieve etere.

Il tratto rilevante di questo racconto, ovvero la mortalità di Niso legata alla durata del capello rosso, ritorna a proposito del meno famoso Pterelao, figlio del fondatore della città di Tafo, contro i cui abitanti, i Teleboi, era andato a combattere Anfitrione, lo sposo di Alcmena, celebre per essere stato sostituito nel letto nuziale da Zeus (che mattacchione!) che ne aveva preso le sembianze. (Apollodoro, II, 4, 7).
Ma il motivo del “capello strappato” non è peculiare solo della letteratura greca e latina. Anche la sorte di Sansone, famoso personaggio biblico, è legata ai capelli. Così era stato annunciato a sua madre, che era sterile e aveva pregato Dio di farle concepire un figlio:

Ecco, tu sei sterile e non hai avuto figli, ma
concepirai e partorirai un figlio, sulla cui testa non
passerà rasoio, perché il bambino sarà un nazireo
consacrato a Dio fin dal seno materno; egli comincerà
a liberare Israele dalle mani dei Filistei. (Giudici 13, 3-5).

E così avvenne: nacque Sansone e, una volta cresciuto, cominciò a fare strage di Filistei.
La sua forza venne meno quando, innamoratosi di Dalila, fu tradito dalla giovane che, mandata dai Filistei, sedusse Sansone, lo fece poi addormentare sulle sue ginocchia e gli fece radere da un uomo le sette trecce del capo.  Il Giudice biblico, allora, cominciò ad infiacchirsi e la sua forza si ritirò da lui.



Ma torniamo al mondo classico e concentriamoci su Didone, la regina di Cartagine.  Virgilio instaura un rapporto diretto fra il crinis (capello) e il fatum (destino/sorte) della donna, come se la “porzione di vita” assegnata alla persona fosse legata al momento in cui il fatale capello viene reciso.



Infatti, il capello è la vita di Didone: è il luogo in cui la sua esistenza si condensa, una delle sedi privilegiate in cui si colloca l’anima di una persona. Anche il colore del capello di Didone (che Virgilio definisce “flavus”, biondo) non è un elemento privo di importanza: abbiamo visto che, nella leggenda di Scilla e Niso, il capello di quest’ultimo è rosso. Ciò che conta, evidentemente, è che questo capello “consacrato” abbia un colore diverso da quello degli altri perché è “magico”: è un luogo della vita, secondo la concezione per cui esiste un’anima che è fuori dalla persona o in una parte “accessoria” della persona stessa.
Perciò, in buona sostanza, state attenti quando vi pettinate!

Ad maiora!