mercoledì 23 marzo 2016

Il capello strappato

Poiché non periva per destino o per debita morte,
ma sventurata prima dell’ora, arsa da subitanea follia.
Proserpina non aveva ancora strappato dal capo
Il biondo capello, né assegnato la vita all’Orco stigio.

Questi versi, tratti dall’Eneide (IV, 696-699) ci fanno riflettere su un motivo piuttosto diffuso nelle culture antiche e collegato ad una credenza magica: il “capello strappato”.
Proviamo a capire meglio e a riflettere sul fatto che i capelli (beato chi li ha tutti, folti e belli… Pensiero personale) non siano soltanto un elemento di corredo del nostro capo, ma abbiano un valore antropologico, esistenziale, quasi mistico. Partiamo da Apollodoro, scrittore greco di miti, che narra un famoso episodio a proposito di Niso, re di Megara, e di sua figlia Scilla (III, 15, 8):

Minosse, che aveva il dominio del mare, armò una flotta contro Atene, conquistò Megara dove regnava Niso, figlio di Pandione, e uccise Megareo, figlio di Ippomene, che era venuto da Onchesto in aiuto di Niso. Ma anche Niso morì, tradito da sua figlia. Egli aveva infatti, in mezzo alla testa, un capello rosso, e un oracolo diceva che, se questo capello fosse stato strappato, sarebbe morto. Allora, sua figlia Scilla, che si era innamorata di Minosse, glielo strappò. Minosse, però, quando conquistò Megara, appese la fanciulla per i piedi alla prora di una nave e la fece morire annegata.



Secondo una versione del mito ben attestata a Roma, Scilla fu tramutata in cyris – un uccello acquatico, probabilmente una specie di airone – e Niso in aquila marina. A questa trasformazione fa riferimento anche Virgilio nelle Georgiche (I, 404-409):

Appare in alto nel limpido cielo Niso
e Scilla paga la pena per il purpureo capello;
dovunque ella fuggendo solchi l’etere lieve,
ecco, atroce nemico, con grande stridore la insegue
Niso per l’aria; e dove Niso s’innalza,
ella fuggendo rapida s’invola nel lieve etere.

Il tratto rilevante di questo racconto, ovvero la mortalità di Niso legata alla durata del capello rosso, ritorna a proposito del meno famoso Pterelao, figlio del fondatore della città di Tafo, contro i cui abitanti, i Teleboi, era andato a combattere Anfitrione, lo sposo di Alcmena, celebre per essere stato sostituito nel letto nuziale da Zeus (che mattacchione!) che ne aveva preso le sembianze. (Apollodoro, II, 4, 7).
Ma il motivo del “capello strappato” non è peculiare solo della letteratura greca e latina. Anche la sorte di Sansone, famoso personaggio biblico, è legata ai capelli. Così era stato annunciato a sua madre, che era sterile e aveva pregato Dio di farle concepire un figlio:

Ecco, tu sei sterile e non hai avuto figli, ma
concepirai e partorirai un figlio, sulla cui testa non
passerà rasoio, perché il bambino sarà un nazireo
consacrato a Dio fin dal seno materno; egli comincerà
a liberare Israele dalle mani dei Filistei. (Giudici 13, 3-5).

E così avvenne: nacque Sansone e, una volta cresciuto, cominciò a fare strage di Filistei.
La sua forza venne meno quando, innamoratosi di Dalila, fu tradito dalla giovane che, mandata dai Filistei, sedusse Sansone, lo fece poi addormentare sulle sue ginocchia e gli fece radere da un uomo le sette trecce del capo.  Il Giudice biblico, allora, cominciò ad infiacchirsi e la sua forza si ritirò da lui.



Ma torniamo al mondo classico e concentriamoci su Didone, la regina di Cartagine.  Virgilio instaura un rapporto diretto fra il crinis (capello) e il fatum (destino/sorte) della donna, come se la “porzione di vita” assegnata alla persona fosse legata al momento in cui il fatale capello viene reciso.



Infatti, il capello è la vita di Didone: è il luogo in cui la sua esistenza si condensa, una delle sedi privilegiate in cui si colloca l’anima di una persona. Anche il colore del capello di Didone (che Virgilio definisce “flavus”, biondo) non è un elemento privo di importanza: abbiamo visto che, nella leggenda di Scilla e Niso, il capello di quest’ultimo è rosso. Ciò che conta, evidentemente, è che questo capello “consacrato” abbia un colore diverso da quello degli altri perché è “magico”: è un luogo della vita, secondo la concezione per cui esiste un’anima che è fuori dalla persona o in una parte “accessoria” della persona stessa.
Perciò, in buona sostanza, state attenti quando vi pettinate!

Ad maiora!


mercoledì 16 marzo 2016

Epigrafia latina... Non solo roba da intenditori!

Quanti di voi, visitando ad esempio i Fori Imperiali, si saranno imbattuti in quei lastroni di pietra con incise lettere e sillabe? Probabilmente moltissimi. Ma, onestamente, vi siete mai soffermati a provare a decifrare quei segni? Ecco, tali ruderi contengono delle epigrafi, vale a dire dei messaggi, dei veri e propri testi scritti in occasioni di ricorrenze, come quelli funerarie, oppure di celebrazioni.
La maggior parte delle iscrizioni romane sono, come detto, in pietra; nei tempi più antichi furono usate anche pietre vulcaniche, calcari, importate da Grecia, Egitto e Africa.
Naturalmente, ogni indagine epigrafica ha necessità di una mappa delle cave sfruttate; i Romani organizzarono uno sfruttamento intensivo delle cave tanto è vero che, presso le grandi città, si formarono grandi depositi di marmo – merce di lusso – impiegato nelle costruzioni e nelle decorazioni. La levigatura del blocco di marmo avveniva nella “bottega epigrafica” che si trovava in città o nel suburbio (periferia).



Gli strumenti usati erano il piccone, le ferulae (picchetti di ferro per staccare i blocchi), i cunei in legno, gli scalpelli, punteruoli, graphia (strumenti a graffio), compassi e squadre. Il trasporto dalle cave alle officine avveniva per mare, lagune o fiumi; l’appalto dei trasporti toccava ai negotiatores artis lapidariae (negoziatore dell’arte della pietra). Nella lavorazione, il lapicida (sculptor o scriptor) si metteva semisdraiato oppure su una impalcatura per tracciare il ductus (l’ordine dei singoli elementi dell’iscrizione). Nel passaggio tra le varie fasi dell’iscrizione, potevano accadere “errori”, indice del grado di cultura degli operatori. A questo proposito, è di fondamentale importanza l’ordinatio, che non consisteva solo nel disegno delle lettere, ma anche nel tracciato di linee orizzontali sulle quali o dentro le quali si dovevano incidere le lettere (linee tracciate con una punta sottile, col gesso o col carboncino). Gli errori più comuni nell’incisione erano:
• errori o correzioni di semplici lettere, magari per assonanza;
• per analfabetismo;
• per fraintendimento di lettere (E e F) o per incomprensione di lettere (I,L,T) confuse con le linee di guida;
• lettere incise capovolte;
• scambio di lettere (es. posiut per posuit);
• lettere dimenticate e poi inserite più tardi;
• correzioni che vogliono migliorare l’originale.
Vanno ricordate infine le iscrizioni musive - ad opera dello stesso mosaicista – che si inseriscono nel quadro generale delle tessere del mosaico; queste iscrizioni si compivano domi (cioè in casa e non in officina).



Le abbreviazioni si chiamano siglae:
R(es) P(ublica)
DDDD NNNN   D(omini) N(ostri) Q(uattuor) : quattro nostri padroni
Forse le abbreviazioni erano dovute all’esigenza di risparmiare spazio e in virtù di quelle la lettura dell’iscrizione era mnemonica (memorizzare i significati delle abbreviazioni).
Le iscrizioni funerarie erano indicative di un tentativo di ricordare, anche dopo la morte, le persone; queste epigrafi non erano solo prerogativa dei ricchi, ma anche dei poveri e costituivano dei veri e propri nuclei familiari.
Es.
D.(is)M.(anibus) L.(ucius) Camillus Faustus vir Aug(ustalis) viv(us)
fecit in anno LXX, vixit annis LXXXXII.
Agli Dei Mani, Lucio Camillo Fausto, uomo vivo al tempo di Augusto, fece (la lapide) nell’anno 70 (di età), visse negli anni 92 (dopo Cristo, sotto l’imperatore Domiziano).

Inoltre ricordiamo dei cartelli con elenco dei prigionieri, delle imprese, dei bottini.
Esistevano anche cartelli satirici, polemici, di dissenso o di difficile comprensione, come I.N.R.I. (Iesus Nazarenus Rex Iudearum).
L’immagine a cui era associata questa scritta era quella di un pesce e i Romani non riuscivano a collegare la figura dell’animale alla scritta, anche perché poteva apparire un’ulteriore sigla (Iktzùs) che in greco significa “pesce” ma, sciogliendo le abbreviazioni, ci troviamo di fronte ad una cosa assai strana e eccezionalmente esatta pur nella sua apparente casualità: Iesùs Kristòs Tzeoù Uiòs Sotèr (Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore).

Per concludere, proponiamo alcuni esempi di scioglimento di un’epigrafe, sperando di non avervi troppo annoiato.

D M
SEVERUS
SEXTI   FIL
UXORI     POS

Dis Manibus             Severo, figlio di Sesto, pose (questa lastra tombale) in
Severus                     onore degli Dei Mani alla moglie
Sexti Filius  
Uxori Posuit

HER   M   V   MET

Herculi   Miles   Vivus   Metellus               Il soldato vivo Metello dedica l’epigrafe

                                                                     ad Ercole


Ad maiora!