martedì 25 agosto 2020

I CLASSICI, UN BUON RIMEDIO CONTRO ANSIA E STRESS

L’altra sera, una delle tante inumidite dalla cappa di afa estiva, faticando a prendere sonno, ho pensato a quali metodi avrei potuto utilizzare per addormentarmi: musica rilassante, valeriana, conteggio numerico delle pecore, ecc. Rigirandomi nel letto come un calzino, mi è venuto in mente Orazio. Cosa strana, qualcuno dirà… In effetti non mi ritengo molto normale, soprattutto in questo periodo. Ma perché proprio il poeta latino? Molti sanno che il celebre motto del carpe diem è suo, ma in pochi ne conoscono il vero significato. A me ha fatto prendere sonno. Come, vi chiederete? Semplicemente parlando, “cogli l’attimo” vuol dire essere consapevoli del fluire inesorabile del tempo, del fatto che non ci si bagna due volte nella stessa acqua, che i momenti vissuti sono unici ed irripetibili. Spesso e volentieri, purtroppo, ci affanniamo a rincorrere il futuro, predisponendo piani di azione che non realizzeremo mai. Oppure - atto ancor più autolesionistico – guardiamo indietro con rimpianto, fatichiamo a staccarci da un passato ormai terminato, costruiamo dei vincoli e li camuffiamo da senso di appartenenza. Pensiamo, quindi, che A escluda B e non, come sarebbe opportuno fare, che A conviva con B. Tanti grovigli, molte volte morbosi, si traducono in ansia e stress, ossidando il nostro cervello e, in alcuni casi, generando problemi psicosomatici.

 

Credo che i classici possano darci una risposta vincente, terapeutica, piano piano, passo dopo passo; se fossimo capaci di pensare all’immanente, a quel che c’è, a conferire un peso giusto, quindi modesto, agli affanni quotidiani, probabilmente avremmo gli strumenti per attaccare con più forza d’animo i veri problemi della vita, quelli che, seriamente, non fanno dormire la notte. Spesso, poi, i disturbi ansiogeni ci mostrano la realtà sempre in veste negativa, rendono le piccole collinette valichi insuperabili, distruggono opportunità di cui, forse, potremo avere rimpianti.

Non so se Orazio sia la risposta giusta ai mali contemporanei: per me può esserlo. In generale, comunque, la condivisione delle proprie paturnie con qualcosa che possa offrirci una visione diversa della vita è un’azione positiva: un buon libro, una poesia che tocchi le corde giuste, una frase, un aforisma.

Il pensiero dei grandi ci salva, ci rigenera, ci libera.

 

Ad maiora!

 

giovedì 30 aprile 2020

IL VINO, SPECCHIO DELL’ANIMA




Cari amici, 

oggi ci va di affrontare un tema che, in superficie, potrebbe sembrare curioso e poco letterario. Tutt’altro. Il vino, Oinos in greco (pensiamo, ad esempio, alle parole “enoteca”, “enologico”, “enogastronomico”, ecc.), è amico sincero, compagno di giochi e di avventure, quella spalla a cui confessare i propri segreti più intimi. Nel mondo classico, soprattutto in Grecia e a Roma, il suo valore è indiscutibile e si associa all’eroismo, alla fedeltà, all’erotismo, alla coesione ed all’amicizia.
Uno dei poeti più importanti, a questo proposito, è Alceo: egli nasce a Mitilene in una famiglia aristocratica, ha due fratelli con i quali si dedica all’impegno politico combattendo contro gli Ateniesi per il possesso di Sigeo, ma senza successo (celebre la resa, evidenziata dall’abbandono dell’Oplon, ovvero lo scudo, simbolo di resistenza e valore). Arrivato al potere Mirsilo, Alceo congiura contro di lui ma, il fallimento dell’iniziativa, lo porta ad un primo esilio a Pirra. Alla morte del tiranno, il poeta esulta:

fr. 332 Voigt

Ora bisogna ubriacarsi,

e che ciascuno beva anche per forza:

perché Mirsilo è morto.

Alceo muore anziano, come dimostra un suo frammento, tradotto da S. Quasimodo:

Sul mio capo che molto ha sofferto


e sul petto canuto


sparga qualcuno la mirra.


Le odi di Alceo sono state raccolte dagli Alessandrini (grammatici e filologi vissuti ad Alessandria d’Egitto fra il III ed il II secolo a.C.) in almeno 10 libri, divisi per genere: nel primo volume gli inni agli dèi, negli altri i canti di lotta, i canti conviviali, i canti d’amore.
Al centro della lirica di Alceo c’è il vino: attenzione, esca dalle nostre menti l’idea che il poeta fosse uomo scellerato e senza freni! E allora cosa rappresenta per lui il nettare degli dèi? È lo strumento per esaltare la personalità e per verificare la coesione dei singoli, “svelando il compagno al compagno”. Bere non per infrangere la disciplina, ma per provarne la solidità. Alceo ed i suoi compagni, fra cui l’amico Pittaco, trascorrono il tempo fra il cibo con cui ora si accendono contro il tiranno Mirsilo, ora placano l’odio verso di lui oppure ogni altro cruccio. Il vino, proibito alle donne, favorisce la solidarietà e l’intimità ed ha valore supremo, divino, spiegato dalla metamorfosi, magica per i Greci, dell’uva nella bevanda inebriante.

Fr. 347 Voigt 

Inonda di vino i polmoni,

infatti la canicola compie il suo giro e la stagione è opprimente,

 ogni cosa è assetata sotto la vampa del sole,

 la cicala risuona dolce dalle fronde e il cardo fiorisce.

Ora le donne sono impure quanto mai, e gli uomini emaciati,

Sirio dissecca la testa e le ginocchia.

Il vino è concepito dal poeta come specchio dell’uomo e sono vari i motivi che lo inducono a bere: l’ora del tempo, la dolce o aspra stagione, la visione dello Stato in rovina, il sentimento dell’umana condizione. L’ebbrezza, quindi, come farmaco della vita e come strumento di equilibrio esistenziale.

Chi volesse approfondire il tema del vino nella letteratura, greca e non, se ne avesse voglia potrebbe leggere i seguenti saggi:
Oinos : il vino nella letteratura greca / Luca Della Bianca, Simone Beta
Roma : Carocci, 2002, 108 p. 
Il calamaio di Dioniso : il vino nella letteratura italiana moderna / Pietro Gibellini
Milano : Garzanti, 2001, 184 p.

Nel prossimo articolo parleremo del poeta latino Orazio e di come egli, attraverso il vino, inviti tutti quanti noi ad essere consapevoli dello scorrere inevitabile del tempo.

Ad maiora!

domenica 12 aprile 2020

L'ELOGIO DELLA TAGLIATELLA


Cari amici lettori,
ci ritroviamo a celebrare una Pasqua sui generis, piuttosto “peculiare” e, ne siamo certi, irripetibile. Ciò, tuttavia, non toglie il piacere di fare una buona prima colazione, di lavarsi per bene e di vestirsi decentemente, abbandonando tute e ciabatte, almeno per un giorno. Allo scoccare del mezzogiorno, attorno al desco, ci riuniremo, oppure saremo soli, per mangiare. Che cosa, direte? I piatti della tradizione, che nella terra di Romagna si declinano in lasagne al forno, forse privilegiate rispetto ai cappelletti in brodo, più natalizi (ma non esecrabili oggi, ovviamente!). Poi, agnello, oppure carne arrosto con patate, infine il dolce: creme caramel, tiramisù, varie.
Chi scrive non è particolarmente amante delle feste comandate, anzi: preferisce i giorni feriali, quelli che gli antichi Romani avrebbero definito “fasti”, in cui era lecito - fas, appunto - dedicarsi ad attività sia pubbliche che private. Ma, da buon italiano, soprattutto romagnolo, non può dimenticare le tradizioni, vale a dire ciò che si consegna - dannato latino, vero? Tràdere, infatti, significa “trasmettere” -.
E allora, dopo aver pensato e ripensato, ecco l’idea: chi, meglio di Stecchetti, potrebbe suggerirci un vero spunto creativo, ma sempre nel solco delle nostre radici? Molti conoscono la penna irriverente e sapida di Olindo Guerrini, alias Lorenzo Stecchetti, Mercutio, Argia Sbolenfi e tanti altri cognomina, ma alcuni la ignorano (peccato mortale).


È, egli, romagnolo di Sant’Alberto, ma bolognese d’adozione, l’autore dei Sonetti romagnoli, ancora oggi ripubblicati da Zanichelli, delle magnifiche parodie dantesche, dei ritratti della Ravenna e dell’anticlericalismo più spinto che, ormai, non esistono più, se non nel cuore degli inguaribili amanti della poesia. Stecchetti, inoltre, scrive versi in lingua molto profondi, traduce i più grandi lirici antichi e moderni, è capace di toccare vette altissime.
Allora, in ossequio alla Pasqua più laica e meno sacra, proponiamo la ricetta delle tagliatelle, utile a chi volesse prepararle magari oggi, domani, o dopodomani, sempre! Firmato, ovviamente, Olindo Guerrini.

L'ELOGIO DELLA TAGLIATELLA
 
Fate una pasta d’uova e di farina
E riducete rimenando il tutto
In una sfoglia, ma non troppo fina,
Uguale, soda, e sul taglier pulito,
fatene tagliatelle larghe un dito,
Che farete bollire allegramente
In molt'acqua salata, avendo cura
Che come si suol dir, restino al dente,
poiché se passa il punto di cottura,
Diventan pappa molle, porcheria,
Insomma roba da buttar via.
Mettete alcune fette di prosciutto
Tagliato a dadi, misto magro e grasso,
Indi col burro rosolate il tutto,
Scolate la minestra e poi conditela
Con questo istinto e forma, indi servitela.
Questa minestra, che onora Bologna
Detta la grassa non inutilmente,
Carezza l'uomo dove gli bisogna,
Dà molta forza ai muscoli e alla mente,
Fà prender tutto con filosofia.
Piace, nutre, consola e così via.


Buona Pasqua a tutti e… Ad maiora!