Cosa ci lascia la serie TV sul gruppo icona degli anni ’90. Eravamo davvero così felici?
di Fabio Pagani
Pur con qualche ritrosia, per i
motivi che spiegherò più avanti, ho guardato tutte le otto puntate della serie
“Hanno ucciso l’uomo ragno – La leggendaria storia degli 883”. Sydney Sibilia,
il regista, ha senz’altro realizzato un buon prodotto, avvalorato dall’ottima
interpretazione dei giovanissimi protagonisti, Elia Nuzzolo (Max Pezzali) e
Matteo Oscar Giuggioli (Mauro Repetto).
La narrazione è abbastanza fedele
alla reale vicenda del duo, ascoltando le interviste rilasciate dagli attori:
dagli inizi difficili, all’esplosione definitiva, fino alla rottura, di cui si
intuisce il motivo, senza che, però, sia declinato. Sicura, a questo proposito,
la seconda stagione della serie.
Ma, dicevo,
mi sono avvicinato alla visione con un pizzico di prevenzione: in genere,
quando si riapre la porta della nostalgia, in questo caso evidente per una
certa generazione, come la mia, si corre il rischio di enfatizzare e celebrare
un periodo che pare migliore di quello attuale. Per alcuni versi, può essere
così: i giovani degli anni ‘80/’90 avevano realmente più cose da dire di quelli
di oggi? Erano più sognatori? La storia di Max e Mauro è la classica amicizia
di due ragazzi di provincia, che si conoscono a scuola e che condividono la
passione per la musica; le lunghe estati di Pavia, quelle, per intenderci, in
cui ci si annoia mortalmente – ah, la noia, stato fisico e mentale che, quando
vissuto in modo sano, fa apprezzare il valore dell’attesa – nascondono in
realtà la risposta a tutte le inquietudini dei due protagonisti. È proprio dal
nulla apparente che nascono le storie, a loro volta cullate nella fantasia che
riempie di contorni luccicanti l'ordinaria quotidianità. E così, molto
semplicemente, una ragazza, anzi, la ragazza tanto desiderata da Max, che gli
racconta le proprie inquietudini amorose, ispira il testo del primo successo
degli 883, dal titolo “Non me la menare”, come rappresenta il paradigma
assoluto della sofferenza sentimentale, del possibile “NO” in “Come mai”.
Max e Mauro sono, forse è meglio
dire “erano”, due ragazzi come tanti di noi che, a cavallo di quegli anni, si
accontentavano di avere un sogno; quel mondo senza smartphone, internet e
Instagram ci consentiva di inforcare la bicicletta o il motorino per andare a
trascorrere lunghi pomeriggi in giro per le vie della città, ci alimentava con
la benzina dell’immaginazione, quella che manca terribilmente ai ragazzi degli
anni ’20 del 2000.
E allora, se i Max e i Mauro del
1992 fossero qui, oggi, e vivessero il 2024, cosa direbbero? Come ci
giudicherebbero? Non sono tanto sicuro che risponderebbero con fermezza che
negli anni ’90 si stesse meglio; si adatterebbero al moderno, forse
produrrebbero canzoni ancora più iconiche, più forti, grazie alla tecnologia e
alle infinite possibilità offerte dalla comunicazione. Oppure, no… No, perché
il bombardamento a cui siamo sottoposti non stimola la creatività, semmai la
inibisce.
Ecco perché, pur contento di aver
visto la serie e di averla molto apprezzata, credo che la nostalgia per quegli
anni sia discutibile. Domani, forse, rievocheremo il 2024 perché vivremo in un
mondo ancora peggiore di questo; non lo so e non credo sia utile pensarci. Ciò
di cui sono sicuro, invece, è che i giovani devono recuperare la voglia di
sognare, di entusiasmarsi solo perché quella luce, in quella finestra, in
quella casa in cui abita la ragazza del cuore, è accesa: sarebbe già una grande
conquista.
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