martedì 26 novembre 2024

Generazione 883

Cosa ci lascia la serie TV sul gruppo icona degli anni ’90. Eravamo davvero così felici?

di Fabio Pagani

Pur con qualche ritrosia, per i motivi che spiegherò più avanti, ho guardato tutte le otto puntate della serie “Hanno ucciso l’uomo ragno – La leggendaria storia degli 883”. Sydney Sibilia, il regista, ha senz’altro realizzato un buon prodotto, avvalorato dall’ottima interpretazione dei giovanissimi protagonisti, Elia Nuzzolo (Max Pezzali) e Matteo Oscar Giuggioli (Mauro Repetto).

La narrazione è abbastanza fedele alla reale vicenda del duo, ascoltando le interviste rilasciate dagli attori: dagli inizi difficili, all’esplosione definitiva, fino alla rottura, di cui si intuisce il motivo, senza che, però, sia declinato. Sicura, a questo proposito, la seconda stagione della serie.

Ma, dicevo, mi sono avvicinato alla visione con un pizzico di prevenzione: in genere, quando si riapre la porta della nostalgia, in questo caso evidente per una certa generazione, come la mia, si corre il rischio di enfatizzare e celebrare un periodo che pare migliore di quello attuale. Per alcuni versi, può essere così: i giovani degli anni ‘80/’90 avevano realmente più cose da dire di quelli di oggi? Erano più sognatori? La storia di Max e Mauro è la classica amicizia di due ragazzi di provincia, che si conoscono a scuola e che condividono la passione per la musica; le lunghe estati di Pavia, quelle, per intenderci, in cui ci si annoia mortalmente – ah, la noia, stato fisico e mentale che, quando vissuto in modo sano, fa apprezzare il valore dell’attesa – nascondono in realtà la risposta a tutte le inquietudini dei due protagonisti. È proprio dal nulla apparente che nascono le storie, a loro volta cullate nella fantasia che riempie di contorni luccicanti l'ordinaria quotidianità. E così, molto semplicemente, una ragazza, anzi, la ragazza tanto desiderata da Max, che gli racconta le proprie inquietudini amorose, ispira il testo del primo successo degli 883, dal titolo “Non me la menare”, come rappresenta il paradigma assoluto della sofferenza sentimentale, del possibile “NO” in “Come mai”.

Max e Mauro sono, forse è meglio dire “erano”, due ragazzi come tanti di noi che, a cavallo di quegli anni, si accontentavano di avere un sogno; quel mondo senza smartphone, internet e Instagram ci consentiva di inforcare la bicicletta o il motorino per andare a trascorrere lunghi pomeriggi in giro per le vie della città, ci alimentava con la benzina dell’immaginazione, quella che manca terribilmente ai ragazzi degli anni ’20 del 2000.

E allora, se i Max e i Mauro del 1992 fossero qui, oggi, e vivessero il 2024, cosa direbbero? Come ci giudicherebbero? Non sono tanto sicuro che risponderebbero con fermezza che negli anni ’90 si stesse meglio; si adatterebbero al moderno, forse produrrebbero canzoni ancora più iconiche, più forti, grazie alla tecnologia e alle infinite possibilità offerte dalla comunicazione. Oppure, no… No, perché il bombardamento a cui siamo sottoposti non stimola la creatività, semmai la inibisce.

Ecco perché, pur contento di aver visto la serie e di averla molto apprezzata, credo che la nostalgia per quegli anni sia discutibile. Domani, forse, rievocheremo il 2024 perché vivremo in un mondo ancora peggiore di questo; non lo so e non credo sia utile pensarci. Ciò di cui sono sicuro, invece, è che i giovani devono recuperare la voglia di sognare, di entusiasmarsi solo perché quella luce, in quella finestra, in quella casa in cui abita la ragazza del cuore, è accesa: sarebbe già una grande conquista.

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