mercoledì 24 febbraio 2016

UN SOGNO CHIAMATO JUVENTUS - Cento anni di eroi e vittorie bianconere

Oggi, spinti forse dall’onda delle emozioni della scorsa serata di Coppa Campioni, vogliamo recensire la storia raccontata dal popolare opinionista, nonché raffinato scrittore, Giampiero Mughini, vale a dire un libro di emozioni e ricordi che tracciano, in positivo e negativo, i sentimenti di ogni juventino. Ci perdonerete se, per una volta, abbandoniamo il mondo dei Classici e diventiamo profani!
Mughini ci parla di un mito, di una squadra che incarna da sempre la vittoria e il prestigio. Sin dall’età di sei anni, quando giocava a calcio con le figurine di carta che ritraevano i grandi campioni bianconeri, Mughini fa parte di quei dieci milioni e passa di italiani che ardono di passione per la Juventus. La Vecchia Signora del nostro calcio vede la luce il 1 novembre 1897 quando, su una panchina di corso Re Umberto, un gruppo di studenti del liceo torinese “D’Azeglio” fonda lo “Sport Club Juventus”, divenuto “Juventus Football Club” nel 1899. Meno male che non furono considerate  le proposte di chi voleva intitolare la nuova società “Iris Club” o, peggio, “Società Polisportiva Augusta Taurina”; Juventus, una dizione che si sarebbe rivelata perfetta perché non ancorava sentimentalmente il nome della squadra all’una o all’altra città italiana, ma a un valore e a una speranza universale, la giovinezza, la “juventute”. Nei primi anni di vita, Madama non entusiasma, anche perché i campionati vengono dominati da Genoa, Pro Vercelli e Milan, ma poi, nel 1905, arriva il primo scudetto; le casacche non sono più rosa ma bianconere in quanto, per un banale errore di spedizione, dall’Inghilterra vengono inviate le magliette bianconere del Notts County. Un errore che si rivelerà straordinariamente azzeccato! I calciatori della Juve di inizio Novecento erano ancora dei pionieri, andavano in campo con pantaloni lunghi e scarponi, ma sapevano distinguersi già per la loro personalità; ricordiamo il portiere Domenico Maria Durante, di cui si diceva fosse imbattibile soprattutto dopo che nell’intervallo fra primo e secondo tempo un tifoso della Juve aveva portato champagne ai giocatori. La svolta nella storia juventina avviene il 24 luglio 1923, quando Edoardo Agnelli, figlio di Giovanni, capostipite e fondatore della FIAT, diviene presidente della Juventus.



La prima grande Juve è quella del quinquennio 1930-1935, cinque scudetti in altrettanti anni, un vero e proprio squadrone, straordinario, unico: Combi, Rosetta, Caligaris, Barale III, Varglien I, Rier, Munerati, Cesarini, Vecchina, Ferrari, Orsi. Nel secondo dopo- guerra inizia a prendere corpo una Juventus stellare, in cui primeggia la figura di Giampiero Boniperti, il quale debutta contro il Milan il 2 marzo 1947 per poi chiudere la carriera contro l’Inter il 10 giugno 1961. Il Boniperti giocatore nasce centravanti e si trasforma, col passare degli anni, in centrocampista dalla grande visione di gioco. I tifosi un po’ più maturi ricorderanno il trio Boniperti-Charles-Sivori, IL CALCIO.



Omar Enrique Sivori, che per l’Avvocato era un “vizio”, rappresenta un Maradona ante litteram, un giocatore tanto estroso quanto sregolato, un vero personaggio. Calzettoni arrotolati alle caviglie, il sinistro come “pennello e raggio laser”; Sivori irride gli avversari in punta di dribbling e il tunnel diventa il manifesto del suo genio perverso. L’angelo dalla faccia sporca, come era chiamato, forma con Boniperti ed il “Gigante Buono” John Charles una delle Juventus più belle e divertenti della storia. Negli anni settanta la Juve torna a dominare la scena italiana, dando avvio all’era Trapattoni, ricca di trionfi ma anche di cocenti delusioni. E’ la Juventus dei Zoff, Gentile, Cabrini, Furino, Scirea, Causio, Anastasi, Bettega e via discorrendo, una squadra formidabile che conquista quattro scudetti e la prima coppa internazionale, la UEFA, vinta contro l’Atletico Bilbao nel 1977. Sono di questi anni i memorabili derby contro il Torino dei “gemelli del gol” Pulici-Graziani, sfide all’ultimo sangue, è proprio il caso di dire. Queste grandi stagioni sono però macchiate da due beffe europee, come le sconfitte in finale di Coppa dei Campioni contro l’Ajax nel 1973 e soprattutto contro l’Amburgo nel 1983. La squadra che perse con i tedeschi era formidabile, tanto da poter contare su sette campioni del mondo e su Boniek e Michel Platini, vera stella della Juve anni ottanta. “Le Roi” Michel ha incantato per cinque anni il pubblico bianconero con le sue punizioni, i suoi lanci, la sua classe. Con Platini siamo all’estetica pura, al calcio inteso come hobby e non come esercizio banale.



E’ Gianni Agnelli in persona ad imporlo a Boniperti e Trapattoni, costretti, dai regolamenti, a sacrificare un altro grande, Liam Brady. Platini è un francese di matrice italiana, essendo i suoi nonni di origine novarese. Il suo destro è “un vulcano che sprigiona lapilli incantati”; Michel europeizza la Juve, diventandone il simbolo indiscusso. Gli avversari si inchinano, deferenti. Si ritira, improvvisamente, a 32 anni, sconvolto dall’Heysel, teatro della prima Coppa Campioni vinta dai bianconeri, ma tomba di trentanove tifosi italiani schiacciati dalla furia degli hooligans del Liverpool. Fino a metà degli anni ’90 la Vecchia Signora non vince molto, solo qualche coppa di secondo piano; la dirigenza vuole cambiare e punta sul calcio “champagne” di Maifredi, che arriva a Torino con grandi giocatori, uno su tutti Roberto Baggio. La stagione maifrediana è negativa, soprattutto perché l’allenatore  non ha mai avuto il sostegno della società e allora gli Agnelli impongono una restaurazione trapattoniana; la squadra è più competitiva, ma quelli sono gli anni del grande Milan degli invincibili di Sacchi e Capello. Faro di questa Juve è Roby Baggio; pensi a lui e ti vengono in mente i nomignoli, le etichette (Divin Codino, Coniglio bagnato, Raffaello), i titoli di un film che per cinque stagioni si è girato a Torino.



Con la Juventus si è issato fino al pallone d’oro nel 1993 e allo scudetto nel 1995; Roberto ha una classe pura, inimitabile, ma purtroppo la nuova Juve targata Moggi-Giraudo-Bettega, ignorando l’affetto dei tifosi verso Baggio, lo ha scaricato come un giocatore finito. E siamo all’era Lippi. Il Paul Newman della Versilia entra alla Juve in punta di piedi, nel 1994, e inanella una serie di trionfi irripetibili; scudetto al primo anno, Champions League al secondo, altre coppe e campionati negli anni successivi. La sua Juve è una squadra muscolare, può contare su Vialli, Ravanelli, Ferrara, Peruzzi, Deschamps, ma gioca anche con il fioretto, grazie alle pennellate da Pinturicchio di Alessandro Del Piero. Alex è un campione come pochi, con le sue prodezze ha incantato l’Italia, l’Europa e il mondo, prima che un grave infortunio lo bloccasse e non lo facesse tornare più quello di un tempo. Anche per lui l’Avvocato ha provato grande affetto; Del Piero “cocco di mamma”, “Godot”, “Pinturicchio” è il leader indiscusso della Juve del terzo millennio, una Juve vincente che, dopo le due sfortunate stagioni sotto la guida di un ottimo tecnico come Carlo Ancelotti, è tornata nelle mani di Lippi che ha vinto ed ha continuato a farlo, per la gioia di noi tifosi.


Il racconto di Mughini termina qui, ma manca inevitabilmente l’appendice finale, quella che lo scrittore non avrebbe potuto immaginare nel 2003.
Gli anni 2000 sono proseguiti con ulteriori trionfi: è la Juve di Capello, di Ibrahimovic, Cannavaro, Thuram, Camoranesi, Nedved Buffon, Trezeguet, Del Piero, la squadra che ha vinto due scudetti, ma che ha steccato clamorosamente in Champions League. Trionfi e delusioni cancellati dalla Giustizia e da Calciopoli. Stendiamo un velo pietoso su questo processo farlocco.
Dal 2007, dopo la retrocessione ed il successivo ritorno in serie A, la Juventus ha vissuto stagioni altalenanti, fino alla rinascita sotto la guida di Antonio Conte: tre scudetti e due supercoppe italiane, prima del clamoroso addio. Sembra la fine di un ciclo … Sembra. Arriva Massimiliano Allegri e, con lui, un altro scudetto, una supercoppa, una coppa Italia e la quasi vittoria in Champions (la finale di Berlino ci avrebbe dovuto premiare, ma l’arbitro non è stato della stessa idea).



Ora la Juventus è in corsa su diversi fronti e speriamo possa portare a casa ancora tanti successi.
Chi è juventino porta in sé quel fascino nascosto, celato, quell’abitudine alla sofferenza, alla sopportazione, all’autodifesa che nessun’altra tifoseria può e potrà mai capire. La nostra è  una fede, un credo, uno stimolo continuo. Perché vincere, come dice Boniperti, “non è importante, ma è l’unica cosa che conta”.

Ad maiora!

martedì 16 febbraio 2016

Il tris dei nostri aperitivi non nuoce alla salute!

Come sempre, ecco un riepilogo degli ultimi tre aperitivi etimologici del mese!

VULPEM PILUM MUTAT NON MORES
La volpe cambia il pelo, non i costumi (Proverbio)
Si tratta di un proverbio già diffuso in ambito latino, mentre nel mondo greco era usata la metafora del lupo. In italiano sono rimaste entrambe le versioni: “La volpe perde il pelo, ma non il vizio” e “Il lupo cambia il dente, ma non la mente” (questo aforisma, forse, è meno conosciuto). Variazioni simili, sempre con gli stessi animali come protagonisti, si hanno anche nelle altre lingue europee.

BERESHI’T BARA’ ELOHI’M ET HASHAMAJM VEET HAARETZ
Dal principio creò i cieli e la Terra. (Genesi, I, 1)
Oggi citiamo il primo versetto dell’Antico Testamento, simbolo della creazione. Gli Ebrei non conoscono la parola Genesi, ma è una nostra interpretazione dell’ebraico BERESHI’T, che significa, appunto, “dal principio”. Il popolo di Israele ha una storia straordinaria ed oggi, 27 gennaio, volevamo rivolgere un pensiero a quanto accadde una settantina di anni or sono.
Ma Israele non è “solo” questo. Gli Israeliti, infatti, hanno inventato il sistema consonantico, quello che noi chiamiamo alfabeto, composto da 27 grafemi (non sono stati i Fenici a farlo, come si legge sui libri di storia!). L’ebraico biblico fino al VII secolo d.C. ha solo consonanti. Le vocali vengono aggiunte in seguito: il “nyqùd”, la “puntatura”, cioè vocalizzazione, è stata inventata da un gruppo di rabbini, i “punctatores”, a Tiberiade nel VII secolo.
Quella del popolo ebraico, quindi, non è solo storia di religione e di “diàspora” (dispersione, fuga: pensiamo a quella dall’Egitto, condotta da Mosè, oppure a quella dalla Babilonia di Nabucodonosor, che ha ispirato il grande Giuseppe Verdi nella composizione del Nabucco), ma anche e soprattutto di cultura e tradizioni.
Un popolo grande, quindi, che ha vissuto la tremenda persecuzione nazista: 6 milioni di morti, tanti sopravvissuti suicidatisi anni dopo perché non riuscirono a sopportare il peso del tragico ricordo, troppi, ahinoi, delinquenti che ancora oggi sostengono il negazionismo, ovvero che la Shoah non sia mai esistita.

QUI GRATE BENEFICIUM ACCIPIT, PRIMAM EIUS PENSIONEM SOLVIT
Chi accoglie un beneficio con animo grato paga la prima rata del suo debito. (Seneca, De Beneficiis, II, 22, 1).
Celebre massima del filosofo spagnolo Lucio Anneo Seneca, vissuto a Roma nel I secolo d.C. alla corte dell’imperatore Nerone. Di lui si ricordano, oltre alle innumerevoli opere, gli ultimi giorni di vita, raccontatici magistralmente dallo storico latino Tacito: Seneca, non potendo lasciare in eredità ai suoi discepoli alcun bene materiale, dona loro l’immagine della sua vita e li richiama alla fermezza nel momento delle lacrime in quanto esse sono in contrasto con gli insegnamenti che il filosofo ha sempre impartito. Accusato di aver preso parte al complotto ordito contro Nerone (la celebre congiura dei Pisoni, dal nome della famiglia che l’aveva organizzata nel 65 d.C.), Seneca, che in realtà ne era solo informato marginalmente, riceve dall’Imperatore l’ordine di togliersi la vita (o, quantomeno, gli viene fatto capire ciò). Non potendo né avendo l’intenzione di sottrarsi, Seneca si suicida “stoicamente”, vale a dire rimanendo imperturbabile di fronte al proprio destino.

Ad maiora!


mercoledì 3 febbraio 2016

Alceo... Il viaggio continua!

Cari amici, la scorsa volta abbiamo affrontato la poesia di Saffo e gli aspetti relativi alla cultura del tiaso, vale a dire il circolo ellenico nel quale la poetessa di Ereso insegnava alle giovani l’arte della seduzione.
Oggi continuiamo il percorso all’interno dei poeti del sentimento e del privato: avanti, Alceo!
Egli nasce a Mitilene in una famiglia aristocratica, ha due fratelli con i quali si dedica all’impegno politico combattendo contro gli Ateniesi per il possesso di Sigeo, ma senza successo (celebre la resa, evidenziata dall’abbandono dell’Oplon, ovvero lo scudo, simbolo di resistenza e valore). Arrivato al potere Mirsilo, Alceo congiura contro di lui ma, il fallimento dell’iniziativa, lo porta ad un primo esilio a Pirra. Alla morte del tiranno, il poeta esulta:

fr. 332 Voigt

Ora bisogna ubriacarsi,

e che ciascuno beva anche per forza:

perchè Mirsilo è morto.


Alceo muore anziano, come dimostra un suo frammento, tradotto da S. Quasimodo:

Sul mio capo che molto ha sofferto

e sul petto canuto

sparga qualcuno la mirra.

Le odi di Alceo sono state raccolte dagli Alessandrini (grammatici e filologi vissuti ad Alessandria d’Egitto fra il III ed il II secolo a.C.) in almeno 10 libri, divisi per genere: nel primo volume gli inni agli dèi, negli altri i canti di lotta, i canti conviviali, i canti d’amore.
Al centro della lirica di Alceo c’è il vino: attenzione, esca dalle nostre menti l’idea che il poeta avesse la tessera ad honorem degli alcolisti anonimi!!! E allora cosa rappresenta per lui il nettare degli dèi? E’ lo strumento per esaltare la personalità e per verificare la coesione dei singoli, “svelando il compagno al compagno”. Bere non per infrangere la disciplina, ma per provarne la solidità. Alceo ed i suoi compagni, fra cui l’amico Pittaco, trascorrono il tempo fra il cibo con cui ora si accendono contro il tiranno Mirsilo, ora placano l’odio verso di lui oppure ogni altro cruccio. Il vino, proibito alle donne, favorisce la solidarietà e l’intimità ed ha valore supremo, divino, spiegato dalla metamorfosi, magica per i Greci, dell’uva nella bevanda inebriante.


Fr. 347 Voigt


Inonda di vino i polmoni,

infatti la canicola compie il suo giro e la stagione è opprimente,

ogni cosa è assetata sotto la vampa del sole,

la cicala risuona dolce dalle fronde e il cardo fiorisce.

Ora le donne sono impure quanto mai, e gli uomini emaciati,

Sirio dissecca la testa e le ginocchia.



Il vino è concepito dal poeta come specchio dell’uomo e sono vari i motivi che lo inducono a bere: l’ora del tempo, la dolce o aspra stagione, la visione dello Stato in rovina, il sentimento dell’umana condizione. L’ebbrezza, quindi, come farmaco della vita e come strumento di equilibrio esistenziale.

Chi volesse approfondire il tema del vino nella letteratura, greca e non, se ne avesse voglia potrebbe leggere i seguenti saggi:
Oinos : il vino nella letteratura greca / Luca Della Bianca, Simone Beta
Roma : Carocci, 2002, 108 p. 
Il calamaio di Dioniso : il vino nella letteratura italiana moderna / Pietro Gibellini
Milano : Garzanti, 2001, 184 p.

Alla prossima con l’ultimo lirico, Anacreonte.

Ad maiora!