mercoledì 30 novembre 2016

Catullo e Foscolo: materiale per studenti e non...

Cari amici e studenti,
oggi dedichiamo il blog alla pubblicazione di alcune poesie di Catullo e ad un confronto fra l'autore latino e Ugo Foscolo.
Materiale didattico. Per una volta, e per evitare chilogrammi di fotocopie, abbiamo deciso di utilizzare lo strumento informatico. Naturalmente analizzeremo insieme i frammenti...
Buona lettura!

Catullo, seduto e di spalle a noi, mentre legge le sue poesie agli amici

Frammenti scelti dal Liber di Catullo

Dammi mille baci
Viviamo, mia Lesbia, ed amiamo(ci),
e le chiacchiere dei vecchi troppo arcigni
consideriamole tutte un soldo (bucato).
I giorni [i soli] possono tramontare e ritornare;
noi, una volta che la breve luce è tramontata,
dobbiamo dormire un’unica notte eterna.
Dammi mille baci, (e) poi cento,
poi mille altri, poi ancora cento,
poi di seguito altri mille, (e) poi cento.
Poi, quando ne avremo totalizzate [avremo fatto] molte migliaia,
li rimescoleremo, per non conoscere (il totale),
o perché nessun maligno possa gettar(ci) il malocchio,
sapendo che è così grande il numero dei baci [che c’è tanto di baci].

Ma il cuore non ascolti le ragioni
Questo nostro amore, vita mia
lo prospetti felice
destinato a durare per sempre.
Dei del cielo, fate voi che lei dica il vero,
che lo prometta sincera e dal cuore,
che si possa per tutta la vita
mantener questo patto inviolabile.

Povero Catullo, smettila di illuderti!
Povero Catullo, smettila di illuderti!
Ciò che è perso – e lo sai – è perso: ammettilo.
Giorni di luce i tuoi, un lampo lontano,
quando correvi dove la tua fanciulla ti chiamava,
lei amata come nessuna sarà mai.
Quanta allegria, allora: quanti giochi
volevi, e lei accettava.
Davvero un lampo lontano, quei giorni.
Ora non vuole più: e tu devi accettare.
Non seguirla, se fugge, e non chiuderti alla vita:
resisti, con tutte le tue forze.
Addio, fanciulla. Catullo è forte:
non verrà a cercarti, non ti pregherà, se tu non vuoi.
Ma tu, senza le sue preghiere, soffrirai.
Ah, infelice, che vita ti rimane?
Chi ti vorrà? A chi sembrerai bella?
Chi amerai? A chi morderai le labbra?
Ma tu, Catullo, non cedere, resisti.

Solo con me
Solo con me, sostiene la mia donna,
l’amor farebbe; nemmeno con Giove.
Ma ciò che dice una donna all’amante
fugge nel vento ed è scritto sull’acqua.

Confronto fra Catullo e Foscolo
Al fratello
Ah fratello, fratello! Trascinato
per molte genti  e per molti mari,
sono arrivato qui. Ecco le offerte
che si devono ai morti, nudi riti
d’addio, parole vane per le ceneri
silenziose.
Brutalmente il destino
ti ha rapito a me, povero fratello.
Ora non restano che gli antichi onori
dei padri che tristemente ti rendo
e le parole d’addio: per sempre,
fratello, addio, fratello mio, per sempre.

In morte del fratello Giovanni (U. Foscolo, sonetto, 1803)

Ugo Foscolo

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo

di gente in gente, me vedrai seduto

su la tua pietra, o fratel mio, gemendo

il fior de’ tuoi gentili anni caduto.

La madre or sol, suo dì tardo traendo,

parla di me col tuo cenere muto:

ma io deluse a voi le palme tendo;

e se da lunge i miei tetti saluto,

sento gli avversi Numi, e le secrete

cure che al viver tuo furon tempesta,

e prego anch’io nel tuo porto quiete.

Questo di tanta speme oggi mi resta!

Straniere genti, l’ossa mia rendete

allora al petto della madre mesta.



Ad maiora! 

giovedì 17 novembre 2016

L'angolo letterario

Cari amici,
da oggi, a cadenza libera, inauguriamo una nuova rubrica, "L'angolo letterario". Ci piacerebbe alternare qualche recensione di romanzi della letteratura europea ad un excursus storico-letterario del mondo classico, latino in particolare. Ci proviamo.
Oggi, intanto, vi proponiamo la storia di Mastro Don Gesualdo, di Giovanni Verga. Una storia molto attuale.
Buona lettura!

Il celebre romanzo di Giovanni Verga ha una gestazione difficile: iniziato nel 1881, viene ripreso a metà del 1877 con ritmo serrato e pubblicato a puntate sulla Nuova Antologia. Il posto del Mastro Don Gesualdo nello svolgimento del ciclo dei Vinti è chiarito già nella prefazione dei Malavoglia là dove leggiamo che, soddisfatti i bisogni materiali, “...la ricerca diviene avidità di ricchezze e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro Don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia...”. 
La vicenda è collocata nella prima metà dell’Ottocento - due gli avvenimenti storici che vi compaiono, i moti rivoluzionari del 1820 e del 1848 - ed è assai semplice e lineare. Gesualdo, dopo un’infanzia tribolata e da una giovinezza segnate da un lavoro inumano, raggiunge la ricchezza e sposa, per rendersi gradito ai nobili ed ai notabili della sua città, una nobile decaduta, Bianca Trao. In realtà il matrimonio è voluto dai parenti della fanciulla per porre riparo ad una avventura col cugino, il barone Rubiera. Ben presto Gesualdo comprende che il suo tentativo è miseramente fallito: i nuovi parenti non lo tengono in considerazione alcuna, i suoi familiari si sentono traditi (ma continuano a sfruttarlo), con la moglie e la figlia Isabella non esiste rapporto d’amore.

Il Mastro Don Gesualdo in una rappresentazione teatrale

Anzi proprio la figlia darà un colpo mortale al destino di Gesualdo; innamoratasi di un giovane squattrinato, Isabella fugge da casa. Il padre, per riparare all’accaduto, è obbligato a darla in moglie al Duca di Leyra, che non ama la fanciulla ma ambisce ad impadronirsi del patrimonio del suocero. Continuano le ostilità dei notabili nei suoi confronti, muore la moglie e si manifestano i primi sintomi di una male incurabile che gli rode lo stomaco. Il genero lo porta in palazzo a Palermo per farlo meglio curare, anche se in realtà è soprattutto preoccupato di controllarlo e di impedirgli di disporre liberamente delle ricchezze che gli restano. Qui Gesualdo trascorre gli ultimi anni della sua vita, ripensando ai vasti campi che gli rimangono (e che verranno dilapidati dal genero) e desidera inutilmente un rapporto finalmente affettivo ed intimo con la figlia. E una notte muore “tra l’indifferenza e i lazzi della servitù”.
Emerge dalla lettura un messaggio piuttosto chiaro: l’arrampicata sociale costa lacrime e sangue, la ricchezza non basta a mutare stato. La sfida forsennata per uscire dal “cerchio” naufraga miseramente in quanto s destinata ad un a inevitabile e “necessaria sconfitta” che reca comunque in sé una dimensione di solennità e di tragica dignità. Quel pessimismo che percorre l’altro grande romanzo verghiano, i Malavoglia, si incupisce ancora di più. Se Alessi e la Nunziata riescono a riscattare la “casa del nespolo” trovando un punto d’approdo per chi resta tenacemente fedele alle leggi della casa e del lavoro, nel Mastro Don Gesualdo non c’è speranza alcuna e la legge della economicità pura finisce per divorare i propri figli.

Il busto di Verga. Giardino Bellini (Catania)

Il romanzo si può “...anche leggere come paradigma e figura della condizione umana e del lavoro di Sisifo in cui essa si risolve. Si tratta comunque di un approdo senza sbocco alcuno: a chi vi era pervenuto non restava che il silenzio” (Salvatore Guglielmino).



Giovanni Verga - Mastro Don Gesualdo, Mursia, Milano, 1987.

Ad maiora!

giovedì 10 novembre 2016

Omero, Omero... Perchè sei tu, Omero?

Cari amici,

anagrammando la speranzosa domanda di Giulietta per il suo Romeo, oggi vogliamo parlarvi di Omero, il grande autore di Iliade ed Odissea. O, forse, solo possibile. C'è che sostiene, addirittura, che il poeta greco non sia nemmeno esistito! Vediamo di fare un po' di luce su questo misterioso padre dell'epica.
Che cosa intendiamo con l’espressione “Questione omerica”? Quando pensiamo ad Iliade ed Odissea il primo nome che ci viene in mente è quello di Omero, l’autore dei due poemi epici. Tuttavia, da tempo, gli studiosi hanno dibattuto sull'esistenza del poeta greco, mettendone in discussione lo stesso nome!



Secondo le due teorie più accreditate, infatti, Omero potrebbe derivare dal verbo “omerèin” (“incontrarsi”, con allusione alle feste in cui si ci ritrovava per recitare i racconti epici) oppure dall'espressione “o mè oròn” (participio sostantivato greco, traducibile con “colui che non vede”, “il cieco”, secondo la credenza per cui Omero fosse, appunto, non vedente). Altri, infine, pensano al significato di “ostaggio”. Ciò che sappiamo di certo è che il nome Omero non è un soprannome, quindi l’ipotesi più verosimile è, o sarebbe, la prima che abbiamo riportato. Tornando al problema della paternità dei poemi omerici, le cui storie venivano raccontate dai reduci della guerra di Troia, nel tempo si sono succedute diverse linee di pensiero.
Gli antichi Senone ed Ellanico (III secolo a.C.) negano ad Omero l’Odissea e vengono chiamati i “Korìzontes” (i separatori), mentre Aristarco di Samotracia attribuisce entrambi i poemi ad Omero stesso.



In età moderna, le opinioni sono più complesse e basate su studi filologici molto approfonditi. Francois D’Aubignac, nel 1664, arriva addirittura a negare l’esistenza di Omero; Vico, nel 1730, pensa invece a più poeti, scartando quindi un’unica figura. Wolf (1795), l’inventore della critica analitica, sostiene che i poemi sono stati redatti da una commissione di dotti su incarico di Pisistrato, il tiranno ateniese del VI secolo a.C.
I neounitari, al contrario, esaltano la coerenza complessiva delle due opere, mentre i comparativisti, nel ‘900, raffrontano i poemi omerici con gli scritti epici di altri popoli e trovano, soprattutto nell’Odissea, materiale presente anche in fiabe e novelle di terre non greche.
Ciò che di certo sappiamo, senza ombra di dubbio, è che nel III – II secolo a.C. i filologi alessandrini, tra cui Zenodoto di Efeso, Aristofane di Bisanzio ed Aristarco curano un’edizione critica dei due poemi, li dividono in ventiquattro canti ciascuno contrassegnando ogni canto con una delle ventiquattro lettere dell’alfabeto greco.

Al di là del mistero legato alla paternità di Iliade ed Odissea, resta il primato assoluto del valore culturale e morale dei poemi, figli di un’epoca vera, ma resi sublimi dal mito che li rende immortali, oltre che fondamento della nostra cultura ed identità.

Ad maiora!

giovedì 3 novembre 2016

TRE APERITIVI IN PARTENZA!

Dopo un po' di tempo, e dopo aver privilegiato altri temi, ritornano i nostri aperitivi.
Buona lettura!

Aurea mediocritas

L’aurea via di mezzo (Orazio, Odi, II, 10, 5)


Si tratta di una traduzione alternativa al “modus optimum” con cui veniva reso il precetto greco di Pitagora (Métron άriston: l’ottima misura). L’aggettivo “aureus” indicava eccellenza e la “mediocritas” era il termine tecnico con cui i filosofi abitualmente rendevano il giusto equilibrio. L’ode di Orazio in cui viene impiegata l’espressione è, infatti, un invito alla saggezza, che consiste proprio nella capacità di tenersi lontani da ogni eccesso. Al giorno d’oggi, però, la locuzione è mal interpretata: dato che, in italiano, il termine “mediocrità” non ha il valore positivo del suo antenato latino, “aurea mediocritas” ha finito per essere usato nel senso di “mediocrità superficiale”. Niente di più sbagliato! Trovarsi a metà strada, infatti, è aureo perché equidistante fra la cima, ovvero gli eccessi, e la base, i difetti.

Gloria fugientes magis sequitur
La gloria insegue preferibilmente quelli che la sfuggono
(Seneca, De beneficiis, V,1,4)
Massima, a nostro avviso, di grande, grandissima potenza. Molto più di un luogo comune, quindi. Nella cultura classica la modestia è un requisito indispensabile per raggiungere la vera gloria, che non va esaltata nè desiderata. Potremmo attualizzare il concetto in riferimento ai tanti personaggi che popolano la nostra quotidianità e che si affannano ad apparire, senza preoccuparsi di essere.
Ecco, quindi, un buon motivo per rispolverare le tradizioni classiche, mai passate di moda, mai superflue.

Tu ne quaesieris, scire nefas

Tu non chiedere, non è lecito saperlo (Orazio, Odi, I, 11, 1)

Si tratta dell’inizio di una delle odi più celebri di Orazio, quella del Carpe diem. Il poeta, parlando con la sua donna, il cui nome lirico è Leuconoe, dal greco “testa/mente candida”, la invita a non cercare di prevedere il futuro ricorrendo alla magia perché non è lecito sapere quale sorte ci abbiano riservato gli dei. L’unica salvezza per l’uomo è non sperare nel domani, poiché non sappiamo se ci sarà un domani, e vivere nel presente, cogliendo l’attimo, ed evitando speranze troppo a lungo termine (Spatio brevi spem longam reseces: “Taglia la speranza troppo lunga in uno spazio troppo breve”). Forse molti di voi ricordano un film, “L’attimo fuggente”, in cui il Professor Keating invitava i suoi ragazzi a vivere il mondo con libertà ed autonomia morale, di pensiero e di azione, lottando contro le rigide imposizioni delle famiglie e della società. Un insegnamento coraggioso, straordinario, ma anche molto pericoloso. Non vogliamo dire che si debba seguire pedissequamente il volere degli altri, ci mancherebbe! Ma i giovani hanno anche bisogno di riferimenti e di regole ed è stato questo – forse – il piccolo grande errore commesso dal Professore. Speriamo che il Carpe diem e la citata pellicola che ha come protagonista Robin Williams vi invitino a riguardare, o a vedere per la prima volta, questo straordinario film. Più arduo sarà leggere le Odi di Orazio, ma la speranza è sempre l’ultima a capitolare!

Ad maiora!