mercoledì 23 marzo 2016

Il capello strappato

Poiché non periva per destino o per debita morte,
ma sventurata prima dell’ora, arsa da subitanea follia.
Proserpina non aveva ancora strappato dal capo
Il biondo capello, né assegnato la vita all’Orco stigio.

Questi versi, tratti dall’Eneide (IV, 696-699) ci fanno riflettere su un motivo piuttosto diffuso nelle culture antiche e collegato ad una credenza magica: il “capello strappato”.
Proviamo a capire meglio e a riflettere sul fatto che i capelli (beato chi li ha tutti, folti e belli… Pensiero personale) non siano soltanto un elemento di corredo del nostro capo, ma abbiano un valore antropologico, esistenziale, quasi mistico. Partiamo da Apollodoro, scrittore greco di miti, che narra un famoso episodio a proposito di Niso, re di Megara, e di sua figlia Scilla (III, 15, 8):

Minosse, che aveva il dominio del mare, armò una flotta contro Atene, conquistò Megara dove regnava Niso, figlio di Pandione, e uccise Megareo, figlio di Ippomene, che era venuto da Onchesto in aiuto di Niso. Ma anche Niso morì, tradito da sua figlia. Egli aveva infatti, in mezzo alla testa, un capello rosso, e un oracolo diceva che, se questo capello fosse stato strappato, sarebbe morto. Allora, sua figlia Scilla, che si era innamorata di Minosse, glielo strappò. Minosse, però, quando conquistò Megara, appese la fanciulla per i piedi alla prora di una nave e la fece morire annegata.



Secondo una versione del mito ben attestata a Roma, Scilla fu tramutata in cyris – un uccello acquatico, probabilmente una specie di airone – e Niso in aquila marina. A questa trasformazione fa riferimento anche Virgilio nelle Georgiche (I, 404-409):

Appare in alto nel limpido cielo Niso
e Scilla paga la pena per il purpureo capello;
dovunque ella fuggendo solchi l’etere lieve,
ecco, atroce nemico, con grande stridore la insegue
Niso per l’aria; e dove Niso s’innalza,
ella fuggendo rapida s’invola nel lieve etere.

Il tratto rilevante di questo racconto, ovvero la mortalità di Niso legata alla durata del capello rosso, ritorna a proposito del meno famoso Pterelao, figlio del fondatore della città di Tafo, contro i cui abitanti, i Teleboi, era andato a combattere Anfitrione, lo sposo di Alcmena, celebre per essere stato sostituito nel letto nuziale da Zeus (che mattacchione!) che ne aveva preso le sembianze. (Apollodoro, II, 4, 7).
Ma il motivo del “capello strappato” non è peculiare solo della letteratura greca e latina. Anche la sorte di Sansone, famoso personaggio biblico, è legata ai capelli. Così era stato annunciato a sua madre, che era sterile e aveva pregato Dio di farle concepire un figlio:

Ecco, tu sei sterile e non hai avuto figli, ma
concepirai e partorirai un figlio, sulla cui testa non
passerà rasoio, perché il bambino sarà un nazireo
consacrato a Dio fin dal seno materno; egli comincerà
a liberare Israele dalle mani dei Filistei. (Giudici 13, 3-5).

E così avvenne: nacque Sansone e, una volta cresciuto, cominciò a fare strage di Filistei.
La sua forza venne meno quando, innamoratosi di Dalila, fu tradito dalla giovane che, mandata dai Filistei, sedusse Sansone, lo fece poi addormentare sulle sue ginocchia e gli fece radere da un uomo le sette trecce del capo.  Il Giudice biblico, allora, cominciò ad infiacchirsi e la sua forza si ritirò da lui.



Ma torniamo al mondo classico e concentriamoci su Didone, la regina di Cartagine.  Virgilio instaura un rapporto diretto fra il crinis (capello) e il fatum (destino/sorte) della donna, come se la “porzione di vita” assegnata alla persona fosse legata al momento in cui il fatale capello viene reciso.



Infatti, il capello è la vita di Didone: è il luogo in cui la sua esistenza si condensa, una delle sedi privilegiate in cui si colloca l’anima di una persona. Anche il colore del capello di Didone (che Virgilio definisce “flavus”, biondo) non è un elemento privo di importanza: abbiamo visto che, nella leggenda di Scilla e Niso, il capello di quest’ultimo è rosso. Ciò che conta, evidentemente, è che questo capello “consacrato” abbia un colore diverso da quello degli altri perché è “magico”: è un luogo della vita, secondo la concezione per cui esiste un’anima che è fuori dalla persona o in una parte “accessoria” della persona stessa.
Perciò, in buona sostanza, state attenti quando vi pettinate!

Ad maiora!


mercoledì 16 marzo 2016

Epigrafia latina... Non solo roba da intenditori!

Quanti di voi, visitando ad esempio i Fori Imperiali, si saranno imbattuti in quei lastroni di pietra con incise lettere e sillabe? Probabilmente moltissimi. Ma, onestamente, vi siete mai soffermati a provare a decifrare quei segni? Ecco, tali ruderi contengono delle epigrafi, vale a dire dei messaggi, dei veri e propri testi scritti in occasioni di ricorrenze, come quelli funerarie, oppure di celebrazioni.
La maggior parte delle iscrizioni romane sono, come detto, in pietra; nei tempi più antichi furono usate anche pietre vulcaniche, calcari, importate da Grecia, Egitto e Africa.
Naturalmente, ogni indagine epigrafica ha necessità di una mappa delle cave sfruttate; i Romani organizzarono uno sfruttamento intensivo delle cave tanto è vero che, presso le grandi città, si formarono grandi depositi di marmo – merce di lusso – impiegato nelle costruzioni e nelle decorazioni. La levigatura del blocco di marmo avveniva nella “bottega epigrafica” che si trovava in città o nel suburbio (periferia).



Gli strumenti usati erano il piccone, le ferulae (picchetti di ferro per staccare i blocchi), i cunei in legno, gli scalpelli, punteruoli, graphia (strumenti a graffio), compassi e squadre. Il trasporto dalle cave alle officine avveniva per mare, lagune o fiumi; l’appalto dei trasporti toccava ai negotiatores artis lapidariae (negoziatore dell’arte della pietra). Nella lavorazione, il lapicida (sculptor o scriptor) si metteva semisdraiato oppure su una impalcatura per tracciare il ductus (l’ordine dei singoli elementi dell’iscrizione). Nel passaggio tra le varie fasi dell’iscrizione, potevano accadere “errori”, indice del grado di cultura degli operatori. A questo proposito, è di fondamentale importanza l’ordinatio, che non consisteva solo nel disegno delle lettere, ma anche nel tracciato di linee orizzontali sulle quali o dentro le quali si dovevano incidere le lettere (linee tracciate con una punta sottile, col gesso o col carboncino). Gli errori più comuni nell’incisione erano:
• errori o correzioni di semplici lettere, magari per assonanza;
• per analfabetismo;
• per fraintendimento di lettere (E e F) o per incomprensione di lettere (I,L,T) confuse con le linee di guida;
• lettere incise capovolte;
• scambio di lettere (es. posiut per posuit);
• lettere dimenticate e poi inserite più tardi;
• correzioni che vogliono migliorare l’originale.
Vanno ricordate infine le iscrizioni musive - ad opera dello stesso mosaicista – che si inseriscono nel quadro generale delle tessere del mosaico; queste iscrizioni si compivano domi (cioè in casa e non in officina).



Le abbreviazioni si chiamano siglae:
R(es) P(ublica)
DDDD NNNN   D(omini) N(ostri) Q(uattuor) : quattro nostri padroni
Forse le abbreviazioni erano dovute all’esigenza di risparmiare spazio e in virtù di quelle la lettura dell’iscrizione era mnemonica (memorizzare i significati delle abbreviazioni).
Le iscrizioni funerarie erano indicative di un tentativo di ricordare, anche dopo la morte, le persone; queste epigrafi non erano solo prerogativa dei ricchi, ma anche dei poveri e costituivano dei veri e propri nuclei familiari.
Es.
D.(is)M.(anibus) L.(ucius) Camillus Faustus vir Aug(ustalis) viv(us)
fecit in anno LXX, vixit annis LXXXXII.
Agli Dei Mani, Lucio Camillo Fausto, uomo vivo al tempo di Augusto, fece (la lapide) nell’anno 70 (di età), visse negli anni 92 (dopo Cristo, sotto l’imperatore Domiziano).

Inoltre ricordiamo dei cartelli con elenco dei prigionieri, delle imprese, dei bottini.
Esistevano anche cartelli satirici, polemici, di dissenso o di difficile comprensione, come I.N.R.I. (Iesus Nazarenus Rex Iudearum).
L’immagine a cui era associata questa scritta era quella di un pesce e i Romani non riuscivano a collegare la figura dell’animale alla scritta, anche perché poteva apparire un’ulteriore sigla (Iktzùs) che in greco significa “pesce” ma, sciogliendo le abbreviazioni, ci troviamo di fronte ad una cosa assai strana e eccezionalmente esatta pur nella sua apparente casualità: Iesùs Kristòs Tzeoù Uiòs Sotèr (Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore).

Per concludere, proponiamo alcuni esempi di scioglimento di un’epigrafe, sperando di non avervi troppo annoiato.

D M
SEVERUS
SEXTI   FIL
UXORI     POS

Dis Manibus             Severo, figlio di Sesto, pose (questa lastra tombale) in
Severus                     onore degli Dei Mani alla moglie
Sexti Filius  
Uxori Posuit

HER   M   V   MET

Herculi   Miles   Vivus   Metellus               Il soldato vivo Metello dedica l’epigrafe

                                                                     ad Ercole


Ad maiora!

mercoledì 24 febbraio 2016

UN SOGNO CHIAMATO JUVENTUS - Cento anni di eroi e vittorie bianconere

Oggi, spinti forse dall’onda delle emozioni della scorsa serata di Coppa Campioni, vogliamo recensire la storia raccontata dal popolare opinionista, nonché raffinato scrittore, Giampiero Mughini, vale a dire un libro di emozioni e ricordi che tracciano, in positivo e negativo, i sentimenti di ogni juventino. Ci perdonerete se, per una volta, abbandoniamo il mondo dei Classici e diventiamo profani!
Mughini ci parla di un mito, di una squadra che incarna da sempre la vittoria e il prestigio. Sin dall’età di sei anni, quando giocava a calcio con le figurine di carta che ritraevano i grandi campioni bianconeri, Mughini fa parte di quei dieci milioni e passa di italiani che ardono di passione per la Juventus. La Vecchia Signora del nostro calcio vede la luce il 1 novembre 1897 quando, su una panchina di corso Re Umberto, un gruppo di studenti del liceo torinese “D’Azeglio” fonda lo “Sport Club Juventus”, divenuto “Juventus Football Club” nel 1899. Meno male che non furono considerate  le proposte di chi voleva intitolare la nuova società “Iris Club” o, peggio, “Società Polisportiva Augusta Taurina”; Juventus, una dizione che si sarebbe rivelata perfetta perché non ancorava sentimentalmente il nome della squadra all’una o all’altra città italiana, ma a un valore e a una speranza universale, la giovinezza, la “juventute”. Nei primi anni di vita, Madama non entusiasma, anche perché i campionati vengono dominati da Genoa, Pro Vercelli e Milan, ma poi, nel 1905, arriva il primo scudetto; le casacche non sono più rosa ma bianconere in quanto, per un banale errore di spedizione, dall’Inghilterra vengono inviate le magliette bianconere del Notts County. Un errore che si rivelerà straordinariamente azzeccato! I calciatori della Juve di inizio Novecento erano ancora dei pionieri, andavano in campo con pantaloni lunghi e scarponi, ma sapevano distinguersi già per la loro personalità; ricordiamo il portiere Domenico Maria Durante, di cui si diceva fosse imbattibile soprattutto dopo che nell’intervallo fra primo e secondo tempo un tifoso della Juve aveva portato champagne ai giocatori. La svolta nella storia juventina avviene il 24 luglio 1923, quando Edoardo Agnelli, figlio di Giovanni, capostipite e fondatore della FIAT, diviene presidente della Juventus.



La prima grande Juve è quella del quinquennio 1930-1935, cinque scudetti in altrettanti anni, un vero e proprio squadrone, straordinario, unico: Combi, Rosetta, Caligaris, Barale III, Varglien I, Rier, Munerati, Cesarini, Vecchina, Ferrari, Orsi. Nel secondo dopo- guerra inizia a prendere corpo una Juventus stellare, in cui primeggia la figura di Giampiero Boniperti, il quale debutta contro il Milan il 2 marzo 1947 per poi chiudere la carriera contro l’Inter il 10 giugno 1961. Il Boniperti giocatore nasce centravanti e si trasforma, col passare degli anni, in centrocampista dalla grande visione di gioco. I tifosi un po’ più maturi ricorderanno il trio Boniperti-Charles-Sivori, IL CALCIO.



Omar Enrique Sivori, che per l’Avvocato era un “vizio”, rappresenta un Maradona ante litteram, un giocatore tanto estroso quanto sregolato, un vero personaggio. Calzettoni arrotolati alle caviglie, il sinistro come “pennello e raggio laser”; Sivori irride gli avversari in punta di dribbling e il tunnel diventa il manifesto del suo genio perverso. L’angelo dalla faccia sporca, come era chiamato, forma con Boniperti ed il “Gigante Buono” John Charles una delle Juventus più belle e divertenti della storia. Negli anni settanta la Juve torna a dominare la scena italiana, dando avvio all’era Trapattoni, ricca di trionfi ma anche di cocenti delusioni. E’ la Juventus dei Zoff, Gentile, Cabrini, Furino, Scirea, Causio, Anastasi, Bettega e via discorrendo, una squadra formidabile che conquista quattro scudetti e la prima coppa internazionale, la UEFA, vinta contro l’Atletico Bilbao nel 1977. Sono di questi anni i memorabili derby contro il Torino dei “gemelli del gol” Pulici-Graziani, sfide all’ultimo sangue, è proprio il caso di dire. Queste grandi stagioni sono però macchiate da due beffe europee, come le sconfitte in finale di Coppa dei Campioni contro l’Ajax nel 1973 e soprattutto contro l’Amburgo nel 1983. La squadra che perse con i tedeschi era formidabile, tanto da poter contare su sette campioni del mondo e su Boniek e Michel Platini, vera stella della Juve anni ottanta. “Le Roi” Michel ha incantato per cinque anni il pubblico bianconero con le sue punizioni, i suoi lanci, la sua classe. Con Platini siamo all’estetica pura, al calcio inteso come hobby e non come esercizio banale.



E’ Gianni Agnelli in persona ad imporlo a Boniperti e Trapattoni, costretti, dai regolamenti, a sacrificare un altro grande, Liam Brady. Platini è un francese di matrice italiana, essendo i suoi nonni di origine novarese. Il suo destro è “un vulcano che sprigiona lapilli incantati”; Michel europeizza la Juve, diventandone il simbolo indiscusso. Gli avversari si inchinano, deferenti. Si ritira, improvvisamente, a 32 anni, sconvolto dall’Heysel, teatro della prima Coppa Campioni vinta dai bianconeri, ma tomba di trentanove tifosi italiani schiacciati dalla furia degli hooligans del Liverpool. Fino a metà degli anni ’90 la Vecchia Signora non vince molto, solo qualche coppa di secondo piano; la dirigenza vuole cambiare e punta sul calcio “champagne” di Maifredi, che arriva a Torino con grandi giocatori, uno su tutti Roberto Baggio. La stagione maifrediana è negativa, soprattutto perché l’allenatore  non ha mai avuto il sostegno della società e allora gli Agnelli impongono una restaurazione trapattoniana; la squadra è più competitiva, ma quelli sono gli anni del grande Milan degli invincibili di Sacchi e Capello. Faro di questa Juve è Roby Baggio; pensi a lui e ti vengono in mente i nomignoli, le etichette (Divin Codino, Coniglio bagnato, Raffaello), i titoli di un film che per cinque stagioni si è girato a Torino.



Con la Juventus si è issato fino al pallone d’oro nel 1993 e allo scudetto nel 1995; Roberto ha una classe pura, inimitabile, ma purtroppo la nuova Juve targata Moggi-Giraudo-Bettega, ignorando l’affetto dei tifosi verso Baggio, lo ha scaricato come un giocatore finito. E siamo all’era Lippi. Il Paul Newman della Versilia entra alla Juve in punta di piedi, nel 1994, e inanella una serie di trionfi irripetibili; scudetto al primo anno, Champions League al secondo, altre coppe e campionati negli anni successivi. La sua Juve è una squadra muscolare, può contare su Vialli, Ravanelli, Ferrara, Peruzzi, Deschamps, ma gioca anche con il fioretto, grazie alle pennellate da Pinturicchio di Alessandro Del Piero. Alex è un campione come pochi, con le sue prodezze ha incantato l’Italia, l’Europa e il mondo, prima che un grave infortunio lo bloccasse e non lo facesse tornare più quello di un tempo. Anche per lui l’Avvocato ha provato grande affetto; Del Piero “cocco di mamma”, “Godot”, “Pinturicchio” è il leader indiscusso della Juve del terzo millennio, una Juve vincente che, dopo le due sfortunate stagioni sotto la guida di un ottimo tecnico come Carlo Ancelotti, è tornata nelle mani di Lippi che ha vinto ed ha continuato a farlo, per la gioia di noi tifosi.


Il racconto di Mughini termina qui, ma manca inevitabilmente l’appendice finale, quella che lo scrittore non avrebbe potuto immaginare nel 2003.
Gli anni 2000 sono proseguiti con ulteriori trionfi: è la Juve di Capello, di Ibrahimovic, Cannavaro, Thuram, Camoranesi, Nedved Buffon, Trezeguet, Del Piero, la squadra che ha vinto due scudetti, ma che ha steccato clamorosamente in Champions League. Trionfi e delusioni cancellati dalla Giustizia e da Calciopoli. Stendiamo un velo pietoso su questo processo farlocco.
Dal 2007, dopo la retrocessione ed il successivo ritorno in serie A, la Juventus ha vissuto stagioni altalenanti, fino alla rinascita sotto la guida di Antonio Conte: tre scudetti e due supercoppe italiane, prima del clamoroso addio. Sembra la fine di un ciclo … Sembra. Arriva Massimiliano Allegri e, con lui, un altro scudetto, una supercoppa, una coppa Italia e la quasi vittoria in Champions (la finale di Berlino ci avrebbe dovuto premiare, ma l’arbitro non è stato della stessa idea).



Ora la Juventus è in corsa su diversi fronti e speriamo possa portare a casa ancora tanti successi.
Chi è juventino porta in sé quel fascino nascosto, celato, quell’abitudine alla sofferenza, alla sopportazione, all’autodifesa che nessun’altra tifoseria può e potrà mai capire. La nostra è  una fede, un credo, uno stimolo continuo. Perché vincere, come dice Boniperti, “non è importante, ma è l’unica cosa che conta”.

Ad maiora!

martedì 16 febbraio 2016

Il tris dei nostri aperitivi non nuoce alla salute!

Come sempre, ecco un riepilogo degli ultimi tre aperitivi etimologici del mese!

VULPEM PILUM MUTAT NON MORES
La volpe cambia il pelo, non i costumi (Proverbio)
Si tratta di un proverbio già diffuso in ambito latino, mentre nel mondo greco era usata la metafora del lupo. In italiano sono rimaste entrambe le versioni: “La volpe perde il pelo, ma non il vizio” e “Il lupo cambia il dente, ma non la mente” (questo aforisma, forse, è meno conosciuto). Variazioni simili, sempre con gli stessi animali come protagonisti, si hanno anche nelle altre lingue europee.

BERESHI’T BARA’ ELOHI’M ET HASHAMAJM VEET HAARETZ
Dal principio creò i cieli e la Terra. (Genesi, I, 1)
Oggi citiamo il primo versetto dell’Antico Testamento, simbolo della creazione. Gli Ebrei non conoscono la parola Genesi, ma è una nostra interpretazione dell’ebraico BERESHI’T, che significa, appunto, “dal principio”. Il popolo di Israele ha una storia straordinaria ed oggi, 27 gennaio, volevamo rivolgere un pensiero a quanto accadde una settantina di anni or sono.
Ma Israele non è “solo” questo. Gli Israeliti, infatti, hanno inventato il sistema consonantico, quello che noi chiamiamo alfabeto, composto da 27 grafemi (non sono stati i Fenici a farlo, come si legge sui libri di storia!). L’ebraico biblico fino al VII secolo d.C. ha solo consonanti. Le vocali vengono aggiunte in seguito: il “nyqùd”, la “puntatura”, cioè vocalizzazione, è stata inventata da un gruppo di rabbini, i “punctatores”, a Tiberiade nel VII secolo.
Quella del popolo ebraico, quindi, non è solo storia di religione e di “diàspora” (dispersione, fuga: pensiamo a quella dall’Egitto, condotta da Mosè, oppure a quella dalla Babilonia di Nabucodonosor, che ha ispirato il grande Giuseppe Verdi nella composizione del Nabucco), ma anche e soprattutto di cultura e tradizioni.
Un popolo grande, quindi, che ha vissuto la tremenda persecuzione nazista: 6 milioni di morti, tanti sopravvissuti suicidatisi anni dopo perché non riuscirono a sopportare il peso del tragico ricordo, troppi, ahinoi, delinquenti che ancora oggi sostengono il negazionismo, ovvero che la Shoah non sia mai esistita.

QUI GRATE BENEFICIUM ACCIPIT, PRIMAM EIUS PENSIONEM SOLVIT
Chi accoglie un beneficio con animo grato paga la prima rata del suo debito. (Seneca, De Beneficiis, II, 22, 1).
Celebre massima del filosofo spagnolo Lucio Anneo Seneca, vissuto a Roma nel I secolo d.C. alla corte dell’imperatore Nerone. Di lui si ricordano, oltre alle innumerevoli opere, gli ultimi giorni di vita, raccontatici magistralmente dallo storico latino Tacito: Seneca, non potendo lasciare in eredità ai suoi discepoli alcun bene materiale, dona loro l’immagine della sua vita e li richiama alla fermezza nel momento delle lacrime in quanto esse sono in contrasto con gli insegnamenti che il filosofo ha sempre impartito. Accusato di aver preso parte al complotto ordito contro Nerone (la celebre congiura dei Pisoni, dal nome della famiglia che l’aveva organizzata nel 65 d.C.), Seneca, che in realtà ne era solo informato marginalmente, riceve dall’Imperatore l’ordine di togliersi la vita (o, quantomeno, gli viene fatto capire ciò). Non potendo né avendo l’intenzione di sottrarsi, Seneca si suicida “stoicamente”, vale a dire rimanendo imperturbabile di fronte al proprio destino.

Ad maiora!


mercoledì 3 febbraio 2016

Alceo... Il viaggio continua!

Cari amici, la scorsa volta abbiamo affrontato la poesia di Saffo e gli aspetti relativi alla cultura del tiaso, vale a dire il circolo ellenico nel quale la poetessa di Ereso insegnava alle giovani l’arte della seduzione.
Oggi continuiamo il percorso all’interno dei poeti del sentimento e del privato: avanti, Alceo!
Egli nasce a Mitilene in una famiglia aristocratica, ha due fratelli con i quali si dedica all’impegno politico combattendo contro gli Ateniesi per il possesso di Sigeo, ma senza successo (celebre la resa, evidenziata dall’abbandono dell’Oplon, ovvero lo scudo, simbolo di resistenza e valore). Arrivato al potere Mirsilo, Alceo congiura contro di lui ma, il fallimento dell’iniziativa, lo porta ad un primo esilio a Pirra. Alla morte del tiranno, il poeta esulta:

fr. 332 Voigt

Ora bisogna ubriacarsi,

e che ciascuno beva anche per forza:

perchè Mirsilo è morto.


Alceo muore anziano, come dimostra un suo frammento, tradotto da S. Quasimodo:

Sul mio capo che molto ha sofferto

e sul petto canuto

sparga qualcuno la mirra.

Le odi di Alceo sono state raccolte dagli Alessandrini (grammatici e filologi vissuti ad Alessandria d’Egitto fra il III ed il II secolo a.C.) in almeno 10 libri, divisi per genere: nel primo volume gli inni agli dèi, negli altri i canti di lotta, i canti conviviali, i canti d’amore.
Al centro della lirica di Alceo c’è il vino: attenzione, esca dalle nostre menti l’idea che il poeta avesse la tessera ad honorem degli alcolisti anonimi!!! E allora cosa rappresenta per lui il nettare degli dèi? E’ lo strumento per esaltare la personalità e per verificare la coesione dei singoli, “svelando il compagno al compagno”. Bere non per infrangere la disciplina, ma per provarne la solidità. Alceo ed i suoi compagni, fra cui l’amico Pittaco, trascorrono il tempo fra il cibo con cui ora si accendono contro il tiranno Mirsilo, ora placano l’odio verso di lui oppure ogni altro cruccio. Il vino, proibito alle donne, favorisce la solidarietà e l’intimità ed ha valore supremo, divino, spiegato dalla metamorfosi, magica per i Greci, dell’uva nella bevanda inebriante.


Fr. 347 Voigt


Inonda di vino i polmoni,

infatti la canicola compie il suo giro e la stagione è opprimente,

ogni cosa è assetata sotto la vampa del sole,

la cicala risuona dolce dalle fronde e il cardo fiorisce.

Ora le donne sono impure quanto mai, e gli uomini emaciati,

Sirio dissecca la testa e le ginocchia.



Il vino è concepito dal poeta come specchio dell’uomo e sono vari i motivi che lo inducono a bere: l’ora del tempo, la dolce o aspra stagione, la visione dello Stato in rovina, il sentimento dell’umana condizione. L’ebbrezza, quindi, come farmaco della vita e come strumento di equilibrio esistenziale.

Chi volesse approfondire il tema del vino nella letteratura, greca e non, se ne avesse voglia potrebbe leggere i seguenti saggi:
Oinos : il vino nella letteratura greca / Luca Della Bianca, Simone Beta
Roma : Carocci, 2002, 108 p. 
Il calamaio di Dioniso : il vino nella letteratura italiana moderna / Pietro Gibellini
Milano : Garzanti, 2001, 184 p.

Alla prossima con l’ultimo lirico, Anacreonte.

Ad maiora!


martedì 5 gennaio 2016

Iliade ed Odissea, tante storie con un unico intreccio? (Il mondo greco, seconda parte)

Ci eravamo lasciati, a fine novembre, con un post sull'origine della civiltà ellenica, rimandando a fasi successive la prosecuzione dell’argomento. A causa dei già noti problemi informatici che hanno colpito  “il ferro” di chi scrive, riprendiamo oggi il filo del discorso.
L’Iliade e l’Odissea raccontano fatti realmente accaduti: Troia (distrutta da una spedizione o da più incursioni) si trovava su una piccola altura, nella regione Nord-Occidentale dell’Asia Minore presso la confluenza di due piccoli fiumi, lo Scamandro e il Simoenta, oggi a sinistra dello Stretto dei Dardanelli. Il luogo è stato identificato dall'archeologo tedesco Heinrick Schliemann sotto la collina di Hissarlik, in Turchia.


La celebre maschera funebre di Agamennone, in oro, ritrovata da Schliemann


Troia, sorta intorno al III millennio a.C., fu abitata dall’800 a.C. da una popolazione indoeuropea che conosceva il cavallo, usava la ceramica, inumava i morti. Intorno al 1300 a.C. fu danneggiata da un terremoto, poi fu ricostruita e nel 1260 a.C. (circa) fu espugnata ed incendiata. Le vicende di Troia furono raccontate dai reduci della guerra e cantate dagli “aedi” (cantastorie) nelle case, durante un banchetto, nei santuari, nelle piazze… Il contenuto dei racconti (che, ricordiamolo bene, NON erano scritti!) veniva aggiornato secondo le richieste del pubblico, ma in genere era strutturato su tre elementi fissi:
le formule, ovvero nessi di parole con metrica costante (“il piè veloce Achille” oppure “il chiaro Odisseo”) ;
scene tipiche (sbarchi, partenze, sacrifici, banchetti, duelli…);
canoni  positivi, vale a dire regole per organizzare la metrica in sequenze tradizionali.


Achille ed Aiace Telamonio mentre giocano a dadi

Nel tempo l’epica si cristallizzò nella forma in cui aveva avuto più successo e nel VII sec. a.C. il processo era ormai definitivamente concluso ed i canti erano recitati a memoria dai “rapsodi” (termine riconducibile a due etimologie: da ῥάψας – cucire insieme – e αἰδιός – cantore -, vale a dire un cantore che cuciva insieme gli episodi; da ῥάβδος – bastone – e αἰδιός – cantore -, ovvero un cantore che si appoggia ad un bastone, visto che, abbandonato lo strumento musicale, recitava sostenendosi con un bastone).


Aedi e Rapsodi


Quindi, per capire meglio, possiamo sintetizzare il tutto in questo modo: l’aedo è il cantore di ogni genere di versi, mentre il rapsodo lo è dei soli versi epici.
Iliade ed Odissea appaiono, però, non come un’aggregazione di parti, ma come una creazione unitaria con un piano organico. A questo proposito può esserci utile ricordare il giudizio di Aristotele: “Omero, nell'Odissea, non racconta tutte le vicende di Odisseo, ma compone l’Odissea intorno ad un’azione (il ritorno di Ulisse) e così anche per l’Iliade (l’ira di Achille).
Uno dei grandi misteri nati attorno a questi due poemi omerici è la paternità degli stessi: chi li ha scritti? Omero è davvero esistito? Perché, secondo alcune teorie, il suo nome significherebbe “non vedente?” A queste domande, che costituiscono la materia di studio denominata “Questione omerica”, daremo risposta la prossima volta.


Ad maiora!

mercoledì 30 dicembre 2015

Eccovi un poker di aperitivi!

Cari amici lettori, finalmente da oggi posso contare di nuovo sul PC! E che PC!
Lo inauguro subito pubblicando quattro aperitivi, fino ad ora visibili solo sulla pagina Facebook del blog!

Ad maiora!


QUI PRO QUO

Una cosa per l’altra (detto proverbiale).

Questa espressione, di origine ignota anche se probabilmente legata alla filosofia scolastica medioevale, deriva forse dalla “corruzione” popolare di qualche altro modo di dire, dato che nell’attuale formulazione non ha alcun significato (infatti la sua traduzione letterale sarebbe:” il quale per il quale”. E’ probabile che il primo pronome fosse in origine un quis o un quid, dando come traduzione o “quale cosa al posto di un’altra” oppure “chi al posto di chi”. Comunque la formula gode ancora oggi di grande popolarità tanto da venire considerata alla stregua di un sostantivo (“il quiproquo”, “un quiproquo”), che è sinonimo di equivoco. Nel mondo anglosassone invece ha assunto il significato di scambio, di una cosa in cambio dell’altra.


CLAVO CLAVUM EICERE (Proverbio)
Chiodo scaccia chiodo (Lett.: scacciare un chiodo con un altro chiodo)
Si tratta di una locuzione che, in origine, designa solo la comodità di scacciare un male con un rimedio simile (si potrebbe anche utilizzare il detto, mutuato dalla medicina omeopatica, “similia similibus curantibus”, vale a dire “il simile si cura con il simile”); la metafora è ancora viva nella nostra lingua, dove però si applica soprattutto all’ambito erotico, dato che “chiodo scaccia chiodo” è quasi sempre un’esortazione a dimenticare un amore cercandone un altro.

SEMPER BONUS HOMO TIRO EST (Marziale, Epigrammi, XII, 51, 2)
L’uomo buono è sempre un pivello...
Il “tiro” era la recluta dell’esercito romano. Dal linguaggio militare il termine è poi passato ad indicare qualsiasi principiante, esordiente o novellino. Concetti simili a questo espresso da Marziale sono presenti in tutte le lingue. In italiano, ad esempio, si può dire “troppo buono, troppo minchione!”.

NON IN SOLO PANE VIVIT HOMO
Non di solo pane vive l'uomo (Deuteronomio, 8, 3; Matteo, 4, 4)...
Celebre soprattutto per la sua presenza nel Vangelo (dove Gesù la pronuncia in risposta alle tentazioni del Demonio nel deserto), la massima acquista significato da ciò che segue: "ma di ogni parola che provenga dalla bocca di Dio". Quindi si tratta di un'esortazione a preoccuparsi della vita spirituale prima che delle necessità materiali. E di questo, soprattutto oggi che è Natale, spesso ce ne dimentichiamo.

Buona degustazione!
Ci sentiamo l'anno prossimo!