Expende Hannibalem: quot libras
in duce summo invenies? (Trad.:
Pesa le ceneri di Annibale: quante libbre troverai tu che restano di questo
sommo generale?).
“Questa è la domanda che
Giovenale, un autore di satire ostile ad ogni umana grandezza, pone in modo
provocatorio ad un ipotetico interlocutore. Il peso delle ceneri, circa tre
secoli dopo la morte di Annibale, il grande generale cartaginese, doveva essere
minimo; ma era, ed è, enorme il peso della fama, il peso che la figura di
Annibale ha avuto sulla bilancia della storia”.[1]
Ci piace citare queste
parole dell’eccellente Prof. Brizzi, nostro maestro di Storia romana
all’Università di Bologna, per addentrarci tra le pieghe della Seconda Guerra
Punica, che ha visto affrontarsi, fra il 218 ed il 202 a.C., i Romani ed i
Cartaginesi.
Annibale Barca, eroe che
riunisce in sé razionalità ed audacia, viene addestrato alla guerra dallo
spartano Sosilo; sappiamo, infatti, come i guerrieri di Sparta fossero
abilissimi nell’arte militare. Il condottiero cartaginese, avendo a
disposizione contingenti armati eterogenei, si accorge di quanto sia importante
sfruttare le caratteristiche delle diverse etnie: la parte punica, più adatta a
combattere secondo le tattiche oplitiche, viene allenata alla coesione ed al
mantenimento di fila serrate, mentre la componente libica, tanto per citarne
una, è più portata allo scontro individuale. Annibale, allora, fornisce a
quest’ultima come mezzo di lotta non la spada, ma la picca (arma con punta
metallica montata su un’asta di frassino e lunga fra i 4 ed i 6 metri).
L’impresa che i Cartaginesi sperano di compiere è proibitiva: vendicare la
sconfitta subita da Roma nel primo conflitto punico e farlo in casa del nemico!
Annibale parte dalla Spagna, dove si trova la base dei Punici, e giunge in
Italia con 50mila fanti e 9mila cavalieri: a ridosso del Ticino costringe alla
ritirata le truppe romane di Scipione (il padre del famoso Scipione l’Africano),
mentre S. Longo, ingannato da un finto attacco nemico, cade in trappola vicino
al Trebbia ed il suo esercito è travolto.
Roma, nonostante queste prime
delusioni, resiste, anche perché i popoli dell’Appennino sono fedeli scudieri
dell’Urbe. La Repubblica, a questo punto, corre ai ripari e nomina un
dittatore, il Cunctator Quinto Fabio
Massimo che, per la sua strategia volta a logorare il nemico, verrà
soprannominato “Il temporeggiatore”. Questa tattica, però, non porta giovamento
a Roma, tant’è vero che Annibale vince ancora, questa volta a Canne, in Puglia
(216 a.C.).
E’ proprio vero che, a volte, dalle grandi sconfitte si impara a
vincere… I Romani, infatti, capiscono che non ha senso affrontare il nemico in
battaglie campali, dove Annibale è più forte, ma che lo si deve sfiancare con
piccoli scontri. Nel 205 Annibale viene accerchiato a Crotone dalle truppe di
P.C. Scipione e nel 203 è costretto a lasciare l’Italia per tornare in Africa,
dove era da poco giunto lo stesso Scipione. Lo scontro fra i due grandi
generali è inevitabile: nel 202, sul campo di Naraggara (meglio noto come
Zama), nell’odierna Tunisia, nonostante la classe e il genio di Annibale, la
superiorità di forze e di equipaggiamenti romani e l’aiuto decisivo della
cavalleria di Massinissa, re di Numidia, porta il trionfo a Roma. Per la
portata dell’impresa, Scipione assume il soprannome di “Africano”.
E’, così,
inferto il secondo colpo mortale a Cartagine, ormai vicina al tracollo e sempre
meno padrona del Mediterraneo. Annibale, riconosciuto dai Romani come valoroso
condottiero, viene lasciato libero e decide di andare in esilio volontario
girovagando in vari luoghi e finendo i suoi giorni in Bitinia. Lì, complice la
presenza romana, il generale cartaginese, per non rischiare di diventare un
trofeo da esporre al Campidoglio, decide di togliersi la vita bevendo sangue di
bue, un veleno da lui conservato da molto tempo in un anello.
Ad maiora!
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