Nell’antica Roma, Libertas
è fra i casi più significativi di come un principio etico-politico possa subire
mutamenti profondi nella storia. Nella vita dello Stato repubblicano romano, Libertas oscilla nell’equilibrio
instabile della condizione di fatto dei privilegiati e dell’aspirazione
politica di quelli che ne godono meno o nulla.
In età repubblicana, Libertas
è la sintesi ideologica dell’organizzazione sociale tesa ad opporsi al
potere personale; non minore è il timore dei patrizi, i quali avvertono che
cedere alle richieste della plebe crea loro dei condizionamenti. Le lotte della
plebe, come quelle per l’ammissione alle magistrature più importanti, sono tese
giustamente a interessi concreti, ma essi non si ottengono senza una
compartecipazione altrettanto concreta ai diritti che la libertà eroga alla
classe patrizia.
Nel 238 a.C., il console Tiberio Sempronio Gracco
costruisce e dedica a Libertas un
tempio sull’Aventino, colle sacro alla plebe, chiaro segno di una tenace
volontà politica. Unito poi al culto di Giove stesso, ne diviene una sorta di
epiteto nella denominazione di Juppiter –
Libertas (Giove-Libertà), nella quale è riconoscibile un influsso dello Zeus Eleuthèrios
(il Giove Liberatore) greco.
La voglia di libertà ovviamente diventa più viva, fino a
diventare volontà accesa, quanto più una situazione minaccia di farla perdere.
In Cicerone questa consapevolezza, nel momento in cui vive, trova espressioni
nelle quali la passione di parte si anima di accenti sinceri. Nel De lege agraria (II, 6, 15), l’oratore
prospetta il tentativo che viene fatto di togliere al popolo perfino la libertà
(eripi etiam libertatem: [ci] viene
tolta anche la libertà!) e questo proprio attraverso il tribuno della plebe,
che i maiores (gli antenati, i
patriarchi della Repubblica) hanno voluto come difensore e custode di essa.
Nella seconda Filippica (II, 113), Cicerone identifica la pace con la libertà:
“pax est tranquilla libertas, servitus
postremum malorum omnium non modo bello, sed morte etiam repellenda”. E’
quanto dire che, nell’eventualità, una guerra civile non solo è giustificata,
ma anche doverosa. Questo non è solamente il pensiero di Cicerone, ma è anche
quello dei Romani, per i quali la Libertas
non è laica e la rivolta sarebbe quindi protetta dagli auspici di Giove.
Infine, sempre Cicerone, nella quarta Filippica (IV, 5,
11), definisce la libertà come esigenza propria del genere e del nome dei
Romani: “…libertatem propriam generis ac
nominis vestris”.
Pur tenuto conto che si tratta di un discorso forense e
per questo facile al ricorso ad espedienti emotivi, è chiaro che Cicerone non
potrebbe non essere dominato anch’egli dallo spirito che l’imperium, vale a dire il potere,
genera; nei riguardi dei popoli sottoposti, Roma non può adottare la libertas e non sempre sviluppa quella humanitas che pure una retta
amministrazione può consentire.
Roma patisce per la libertà anche al proprio interno; è
particolarmente evidente che, a ricordo dell’uccisione di Giulio Cesare, Bruto
emetta monete con la scritta Eid
(ibus) Mart (iis) e due pugnali fra i quali il berretto frigio,
simbolo della libertà.
Contro l’adfectatio
regni, ovvero l’aspirazione alla
dittatura di Cesare, non c’è altro rimedio; il concetto rientra effettivamente
nella professione di un ideale per il quale può essere bello morire.
Nell’ultima età repubblicana, quando la sua esistenza è
già in grave pericolo, Libertas viene
esaltata su monete dei repubblicani più ardenti, quali Quinto Cepione Bruto, C.
Vibio Pansa, ecc.
Una radiosa testa femminile, talora con il capo cinto da
corona di alloro o dal diadema al pari di una divinità, è presentata con il
nome di Libertas. Il simbolo
vendicativo dei pugnali non va attribuito a lei, ma ai suoi sostenitori pronti
a difenderla.
Ad maiora!
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